da: la Repubblica
C'era una volta Italia Bene Comune, ovvero
Italia giusta: in mezzo a una crisi economica mai vista dopo il '45, la
sinistra sembrò cercare la parola, che la squadrasse da ogni lato. Giustizia non
era solo sociale. Comprendeva diritti che proprio in tempi di disagio la
persona possa accampare. Che siano fondamentali: irrinunciabili come i primi 12
articoli della Costituzione. In fondo non basta chiamarli diritti: meglio
parlare di autodeterminazione del cittadino, come dei popoli. Gli inglesi usano
il termine empowerment: padronanza di sé. Nata da un accordo fra Pd e Sel, la
Carta d'intenti di Italia Bene comune denunciava "i guasti del pericoloso
bipolarismo etico" invalso per un ventennio.
I temi etici di cui tanto si parla da anni (la sovranità della persona sulla propria vita e la propria morte, la procreazione assistita, le unioni libere, i diritti delle coppie omosessuali, matrimonio e genitorialità compresi) sembravano ridefinire la sinistra, svegliarla. Erano presenti anche nei punti di Bersani (nr 2, 4, 7), quando il Pd fece credere, non credendoci, in un governo di svolta con 5 Stelle. Non era che fiato corto. D'un tratto, con le larghe intese, un patrimonio di progetti e idee evapora, come medusa si scioglie al sole. La pacificazione rende inoffensivo il bipolarismo etico, congelando l'etica. La guerra civile e ideologica italiana, assicura Berlusconi, è finita.
Senza che il Pd lo ammetta finisce tuttavia con un appeasement, non con grandi coalizioni. Storicamente appeasement è sottomissione: vince uno dei due contendenti - la destra legata agli integralismi della Chiesa - senza neanche speciali combattimenti. Finiscono nel cestino l'autodeterminazione, la costituzionalizzazione della persona descritte da Stefano Rodotà. La sinistra governante non è più sinistra. Vende l'anima, tradisce promesse fatte non ieri, ma qualche ora prima. Nel discorso di Enrico Letta alla Camera: non un accenno ai temi etici, all'esausta cultura della legalità e del diritto, all'antimafia. La questione morale posta da Berlinguer dopo il compromesso storico è sotterrata. Dal naufragio si salva la lotta alla violenza contro le donne: è il minimo sindacale. Tutto il resto è roba ustionante: "troppo divisiva".
Si dimentica facilmente che democrazia è il contrario di tutto questo: è divisione, scontro tra visioni del mondo, rifiuto di un regno della Necessità cui soccombano le libere alternative. È possibilità e obbligo di occuparsi delle questioni più controverse, senza paura: non avremmo mai avuto il suffragio universale, se avesse prevalso il timore di dividersi. Ce lo ordina la nostra Carta, che riconosce alla persona diritti spesso contraddittori e si cura di farli convivere. La Costituzione, disse Piero Calamandrei nel 1955, non fotografa le conquiste della Resistenza ma è un programma inconcluso. Per questo è polemica: contro il passato, nella parte dei diritti fondamentali, ma soprattutto contro il presente: "Dà un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l'ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione mette a disposizione dei cittadini italiani" (Discorso sulla Costituzione, Società di studi politici del Liceo classico Sannazzaro, 2011). Che facciamo: tumuliamo la Carta costituzionale perché divisiva?
I fautori odierni della pacificazione sanno quello che dicono e che fanno. Assieme ai temi etici, seppelliscono ogni progresso sulla laicità, obbediscono ai vertici ecclesiastici proprio quando la Chiesa muta, tergiversano su antimafia o diritto alla cittadinanza degli immigrati proprio quando il diritto del suolo s'espande nella multietnica Europa (il ministro Cécile Kyenge sa, immagino, con chi governa). Resuscitano rigidezze democristiane che non risuonano più nella società, né in tanti cattolici adulti, memori del Concilio e di dismesse battaglie legalitarie. I cittadini non avevano chiesto questo: non gli elettori di Italia Bene Comune o di M5S, non gli 11,5 milioni di astenuti. Pacificazione è sinonimo di oligarchica colonizzazione di un popolo in maggioranza ribelle, simile a quella di Roma conquistatrice dei Britanni in Tacito: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, là dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Tacito non parla propriamente di deserto ma di genti ridotte alla solitudine. Tale è il cittadino, disoccupato o immiserito: i suicidi l'attestano. Nessuno più lo rappresenta nel rapporto con i mercati, lo Stato, le chiese, le mafie: né i partiti né i sindacati. Ogni giorno sentiamo tuonare contro 5 Stelle che vorrebbero insediare la democrazia diretta sopprimendo quella rappresentativa. Ma di quest'ultima non è che resti un granché.
La solitudine del cittadino è il danno collaterale della crisi, e non stupisce che altrove i democratici ripartano proprio da qui. Mancano i soldi per dare lavoro, e allora la sinistra si distingue facendosi araldo dei diritti della persona: le aperture di Obama e Hollande alle coppie gay non sono diversivi. Sono il permanente empowerment che secondo Amartya Sen coniuga democrazia e mercato, e dà alla persona la sovranità almeno sul proprio corpo.
Troppo disinvoltamente cruento è il continuo appello ai sacrifici: parola che specie i cristiani dovrebbero avversare. Il cittadino immerso nel disagio non è bestia da immolare, e i diritti civili servono precisamente a questo: a farlo sentire padrone di sé, malgrado la pressura. La laicità, Rodotà lo spiega nel suo ultimo libro, non è solo tutela della res publica e della sua pluralità dalle ingerenze vaticane. È autonomia del singolo - in scelte che riguardano i suoi stili di vita, dunque anche di morire - da qualsiasi morale esterna: della Chiesa, del potere statale, di quello medico (Il diritto di avere diritti, Laterza 2012). L'uomo solo non è per forza impotente; e l'impotente - diceva Havel durante il comunismo - ha poteri che non sospetta. Berlusconi, dominus e beneficiario dell'odierno appeasement, non dice solo che la guerra è finita, inclusa quella morale. Dice che le decisioni cruciali concernenti le istituzioni, la Costituzione, i diritti, andrebbero discusse, se possibile sotto la sua guida, "nel chiuso di una stanza. Non possiamo tollerare veti alla mia persona imposti dai giornali".
Ben altro sarebbe intollerabile: che giornali e Rete accettino veti di occulti conciliaboli. Che la democrazia smetta d'essere polemica: all'aperto, non in una stanza. È sperabile che i giornalisti continuino le loro inchieste, difendendo la laica separatezza del Quarto Potere. Che denuncino la nomina del deputato Pdl Michaela Biancofiore, disgustata dai matrimoni gay, a sottosegretario alle Pari Opportunità: strafottenze simili le correggi, ma restano. O la scelta come rappresentante nell'Assemblea parlamentare Euromediterranea di Antonio D'Alì (Pdl), imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. O la carica di sottosegretario alla Pubblica amministrazione conferita a Gianfranco Micciché ("grazie a Berlusconi e Dell'Utri", ha detto al Corriere). Sono gesti che spiegano i silenzi sui diritti. C'è chi dice: moriremo democristiani. Non credo. Andreotti collaborò con la mafia, e a tutti insegnò il potere per il potere. Ma si difese nei processi, non li schivò. Non così Berlusconi, che spregia laicità e diritti ma della Dc è falso erede. Che ha abituato gli italiani a temere i tribunali, a disperare della giustizia. Difficile dimenticare le parole di Enrico Letta, il 30 novembre 2009 sul Corriere, quando definì inopportuna ma legittima la fuga di Berlusconi dai processi. La politica oggi ha poco a vedere con la Dc, e molto con la perdita di potere sovrano dei cittadini. Vale assai più per loro che per i governanti il detto di Andreotti: "Il potere logora chi non ce l'ha".
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