mercoledì 8 maggio 2013

Musica, streaming digitale: “Spotify, ma quale rivoluzione



Spotify, ma quale rivoluzione?

Nel mondo esistono due tipologie di persone: quelle che ascoltano la musica e quelle che non la ascoltano. Ci sono quelli che leggono le recensioni, comprano i dischi e vanno ai concerti nei club e quelli che ascoltano Emma Marrone alla radio e adesso cominciano a farsi un’idea di chi siano i Muse. Il problema è sempre quello, Spotify o non Spotify. Ma partiamo dall’inizio.

Led Zeppelin, tra i grandi assenti del catalogo Spotify
In Italia, a febbraio, giusto in concomitanza con il Festival di Sanremo, sbarca la nuova piattaforma dello streaming digitale. Neanche a dirlo, sono in milioni gli italiani che corrono al pc per ascoltare L’Essenziale di Marco Mengoni (come se non ne avessero avuto abbastanza). Il boom è immediato e sui social network, su Facebook in particolare, compaiono i nuovi status legati alla piattaforma, con i quali possiamo vedere cosa sta ascoltando il nostro ex professore del liceo, la fidanzata o il nostro peggior nemico (per i nerds di vecchia data, tutto questo esisteva già ai tempi di msn messenger). E bisogna ammetterlo, il programmino
presenta diversi punti a suo favore: ha una bella grafica, essenziale, è veloce, c’è parecchia musica ed è…gratis, o quasi. Infatti sono previste tre forme di utilizzo: quella “free”, dove dopo i sei mesi di prova, puoi utilizzare Spotify per un massimo di dieci ore al mese, ma in cambio rischi l’infarto ogni tre minuti a causa degli spot pubblicitari e quelli “unlimited” e “premium”, a pagamento, ma senza pubblicità. Insomma, la piattaforma funziona e funziona lì dove Grooveshark e Deezer, per esempio, non sono riusciti a sfondare. Sembra tutto perfetto, no? Diciamo di no, perchè i conti forse sono messi peggio di quelli italiani e ciprioti. Gli utenti e gli abbonamenti paiono in costante crescita, ma programmi come Spotify hanno tantissimi costi, relativi ai contratti con le case discografiche: quindi, aumentano gli introiti, ma aumentano anche le perdite, perchè i primi non sono sufficienti a coprire le seconde (secondo il New York Times, nel 2011 Spotify ha avuto un rosso da 57 milioni di dollari). E, se da un lato i bilanci delle piattaforme gridano al collasso, anche le etichette indipendenti non possono ritenersi soddisfatte dei trattamenti economici ottenuti: secondo l’associazione The Thricordist, per ogni brano Spotify paga appena cinque millesimi di dollaro all’etichetta. Della serie, faccio prima ad andare a suonare per strada. Certo, Spotify non vuole guadagnare nell’immediato, ma punta al “contagio”, a far diventare il proprio programmino un sistema indispensabile nella vita di tutti i giorni. Un’impresa non certo facile, vista l’enorme concorrenza che si sta allargando proprio in questi momenti: da Youtube all’ultimo arrivato Rdio fino a MySpace, che sta pensando di prendersi la rivincita contro tutti coloro che l’hanno sempre denigrato, progettando un sistema di musica on demand e contando sul vastissimo archivio musicale privo di contratti con etichette discografiche. Senza contare tutte le numerose aspettative nei confronti dei video in streaming.
E’ questo quindi il futuro della musica?
Assolutamente no. Questo è il suo presente. Per capire cosa verrà bisogna aspettare (crisi economica permettendo). Di certo, parlare di rivoluzione sembra esagerato e fuori luogo, perchè non è solo grazie a Spotify che le persone decideranno di andare oltre le proprie conoscenze musicali; non saranno le playlist di qualche rivista a farci scoprire le nuove tendenze più underground. Chi voleva interessarsi alla musica, quella vera,  poteva farlo anche prima, anche senza i computer. Difficile che l’ascoltatore radiofonico medio inizi ora le sue ricerche musicali tra jazz-core neozelandese e synth-pop lituano. Poi, per carità, se grazie a programmi come Spotify, un giorno anche la musica più “outsider” diventerà di tendenza ne saremo solo felici. E magari ci faremo anche due soldi.

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