Spotify,
ma quale rivoluzione?
Nel mondo esistono due tipologie di
persone: quelle che ascoltano la musica e quelle che non la ascoltano. Ci sono
quelli che leggono le recensioni, comprano i dischi e vanno ai concerti nei
club e quelli che ascoltano Emma Marrone alla radio e adesso cominciano a farsi
un’idea di chi siano i Muse. Il problema è sempre quello, Spotify o non
Spotify. Ma partiamo dall’inizio.
Led Zeppelin, tra i grandi assenti del catalogo Spotify |
In Italia, a febbraio, giusto in
concomitanza con il Festival di Sanremo, sbarca la nuova piattaforma dello
streaming digitale. Neanche a dirlo, sono in milioni gli italiani che corrono
al pc per ascoltare L’Essenziale di Marco Mengoni (come se non ne avessero
avuto abbastanza). Il boom è immediato e sui social network, su Facebook in
particolare, compaiono i nuovi status legati alla piattaforma, con i quali
possiamo vedere cosa sta ascoltando il nostro ex professore del liceo, la
fidanzata o il nostro peggior nemico (per i nerds di vecchia data, tutto questo
esisteva già ai tempi di msn messenger). E bisogna ammetterlo, il programmino
presenta diversi punti a suo favore: ha una bella grafica, essenziale, è
veloce, c’è parecchia musica ed è…gratis, o quasi. Infatti sono previste tre
forme di utilizzo: quella “free”, dove dopo i sei mesi di prova, puoi utilizzare
Spotify per un massimo di dieci ore al mese, ma in cambio rischi l’infarto ogni
tre minuti a causa degli spot pubblicitari e quelli “unlimited” e “premium”, a
pagamento, ma senza pubblicità. Insomma, la piattaforma funziona e funziona lì
dove Grooveshark e Deezer, per esempio, non sono riusciti a sfondare. Sembra
tutto perfetto, no? Diciamo di no, perchè i conti forse sono messi peggio di
quelli italiani e ciprioti. Gli utenti e gli abbonamenti paiono in costante
crescita, ma programmi come Spotify hanno tantissimi costi, relativi ai
contratti con le case discografiche: quindi, aumentano gli introiti, ma
aumentano anche le perdite, perchè i primi non sono sufficienti a coprire le
seconde (secondo il New York Times, nel 2011 Spotify ha avuto un rosso da 57
milioni di dollari). E, se da un lato i bilanci delle piattaforme gridano al
collasso, anche le etichette indipendenti non possono ritenersi soddisfatte dei
trattamenti economici ottenuti: secondo l’associazione The Thricordist, per
ogni brano Spotify paga appena cinque millesimi di dollaro all’etichetta. Della
serie, faccio prima ad andare a suonare per strada. Certo, Spotify non vuole
guadagnare nell’immediato, ma punta al “contagio”, a far diventare il proprio
programmino un sistema indispensabile nella vita di tutti i giorni. Un’impresa
non certo facile, vista l’enorme concorrenza che si sta allargando proprio in
questi momenti: da Youtube all’ultimo arrivato Rdio fino a MySpace, che sta
pensando di prendersi la rivincita contro tutti coloro che l’hanno sempre
denigrato, progettando un sistema di musica on demand e contando sul vastissimo
archivio musicale privo di contratti con etichette discografiche. Senza contare
tutte le numerose aspettative nei confronti dei video in streaming.
E’ questo quindi il futuro della musica?
Assolutamente no. Questo è il suo presente.
Per capire cosa verrà bisogna aspettare (crisi economica permettendo). Di
certo, parlare di rivoluzione sembra esagerato e fuori luogo, perchè non è solo
grazie a Spotify che le persone decideranno di andare oltre le proprie
conoscenze musicali; non saranno le playlist di qualche rivista a farci
scoprire le nuove tendenze più underground. Chi voleva interessarsi alla
musica, quella vera, poteva farlo anche prima, anche senza i computer.
Difficile che l’ascoltatore radiofonico medio inizi ora le sue ricerche
musicali tra jazz-core neozelandese e synth-pop lituano. Poi, per carità, se
grazie a programmi come Spotify, un giorno anche la musica più “outsider”
diventerà di tendenza ne saremo solo felici. E magari ci faremo anche due
soldi.
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