da: la Repubblica
Tv,
c’è un piano “larghe intese” ma Mediaset frena e si spacca
Il Biscione
è diviso. Da una parte Pier Silvio che vuole salvare la Pay e il modello di
integrazione verticale, dall’altra Confalonieri, più aperto all’idea di fare
una piattaforma comune con Rai e La7 per portare sul web tutto il sistema
di Stefano
Carli
La pubblicità continua ad andare giù. Altro
meno 18% alla fine di questo primo semestre, si prevede. Forse il calo si
fermerà a meno 10% a fine anno. E sarà meno 10% anche per la media delle tv: ma
gli incumbent, i primi sette canali del telecomando, le ammiraglie Rai e
Mediaset più La7 faranno meno 12,2%. In sette anni, dal 2006, il mercato
pubblicitario italiano ha perso il 30% del suo valore: da 10 a 7 miliardi. Un
gigante come Unilever che spendeva in Italia 90 milioni l’anno, ha tagliato il
budget a 65 milioni. Indietro non si tornerà e le tv devono prepararsi a
operare in questo scenario. Non bisogna lasciarsi ingannare dal rally di Borsa dei titoli della scuderia
berlusconiana. Il listino segue
logiche brevi. I bilanci no. E
infatti l’ultimo report di SocGen su Mediaset parla di ricavi in
calo e stabili sui 3,4 miliardi nei prossimi tre anni (3,7 nel 2012) e
margini in drastico calo. Le tv dovranno fare come stanno facendo gli editori
della carta. Ma almeno questi hanno la prospettiva di passare al digitale. Le
tv digitali lo sono già. E allora? Allora questo è un mercato
che deve cambiare
se non vuole imboccare la via di un declino che potrà essere lungo, ma
ineluttabile. Se tutto restasse così com’è. Le vie d’uscita? A viale Mazzini
come a Cologno Monzese ci si pensa. Ci pensano anche in Sky, dove hanno
problemi un po’ diversi. E ci pensa anche Cairo alle prese in queste settimane
con la presa di controllo di La7,
dove ha appena confermato come ad Marco
Ghigliani che ha ribadito la strategia dei tagli: dopo la Dandini, via anche la Parodi maggiore. Uno scenario ideale ci
sarebbe. E lo conoscono tutti. Funzionerebbe così: Rai, Mediaset e La7 uniscono le forze e realizzano una piattaforma
italiana per l’accesso da Internet ai palinsesti di tutti:
concorrenza tra i network come oggi su contenuti e raccolta pubblicitaria ma
costi di gestione in sinergia, compresa la eventuale riscossione di contenuti
premium a pagamento. Vantaggio: schivare il rischio di essere marginalizzati
dalle Internet company. Giovedì, scorso, per dire, Google, che già aveva presentato la settimana prima il lancio della
sua «pay tv» su YouTube, ha
annunciato che sempre YouTube offrirà sul mercato la possibilità di mettere in rete «dirette tv» in streaming. Non
lo offrirà certo agli utenti della rete, i blogger e al crowd journalism ma
alle major e a chi produce news e fiction e trasmette in
diretta eventi (campionati, olimpiadi), ossia alle tv. Non è sufficiente?
Allora basta pensare che Netflix ha
in bilancio 300 milioni di dollari per produrre fiction in proprio e lo stesso
sta facendo Amazon. Insomma, il rischio è che domani per vedere un programma
Mediaset o Rai via Internet si debba andare su You Tube. O, peggio, che Rai,
Mediaset e compagnia si riducano a livello delle tv locali di oggi. Secondo
passaggio: Rai, Mediamiliardo set e La7
assieme sul satellite per poter fare una «vera» alta definizione liberando le frequenze terrestri che costano di
più e che a breve l’Ue toglierà alle tv per darle alle telco. Vantaggio per le
casse pubbliche degli Stati, che le daranno a caro prezzo, o comunque a un
prezzo molto maggiore delle poche decine di milioni - pare 40 - che potrebbe
essere il valore di base per la famosa asta delle frequenze ex beauty contest,
che potrebbe svolgersi prima dell’estate. Vantaggio per i broadcaster: la
gestione di un canale terrestre costa 3-4 milioni l’anno, quella di un canale
satellitare la decima parte. E gli investimenti li fanno gli operatori
satellitari, Eutelsat e Ses, che stanno intensificando le visite a Viale
Mazzini e a Cologno. Nelle more di questi passaggi, lo scenario prima o poi prevederà anche che Mediaset rinunci alla sua
pay-tv. Non è una novità: sono mesi che si favoleggia di un acquirente. Ma
gli sceicchi sono ricchi però non stupidi e non arriverà nessuno. O almeno
nessuno che si basi su puri calcoli di ritorno dell’investimento. Ne consegue
che per Mediaset Premium esiste un unico potenziale acquirente: Sky. D’altra parte Sky e Mediaset un
primo accordo operativo l’hanno raggiunto, visto che entrambe offrono in pay
tutte le partite di calcio, mentre se le erano aggiudicate in pacchetti
separati e pensati per farsi concorrenza. E che non ci sia più spazio per due
pay in concorrenza lo pensa tutto il mercato, oggi. Mediaset non può
ragionevolmente immaginare di ripianare le perdite
di Premium se anche Sky, che nel
frattempo ha perso 200 mila utenti, scendendo da 5 a 4,8 milioni, ha visto il risultato operativo del primo trimestre
scendere a un quarto del valore dello scorso anno. In molti guardano a questo
scenario futuribile come una via d’uscita. Alcuni pensano che non abbia
alternative. La logica di fondo è riassumibile facilmente: bisogna smontare le vecchie tv integrate verticalmente,
dalla telecamera all’antenna. «Se si vuole valorizzare al meglio i propri
contenuti, visti anche i costi di acquisizione o di produzione - spiega
Alessandro Araimo, senior partner di Roland Berger - bisogna andare su tutte le
piattaforme. In un sistema integrato verticalmente si penalizza, di contro,
proprio il valore potenziale dei contenuti. E si innesca un circolo vizioso:
meno ricavi da contenuti, meno risorse per produrne e comprarne di nuovi. Una
spirale di declino». Un handicap tanto più grave se si pensa che i costi dei
diritti stanno di nuovo lievitando. Proprio per l’incremento di domanda che
viene dalle Internet company. E’ anche per questo che Amazon e Netflix stanno entrando (o almeno minacciano di farlo)
nella produzione. E’ per questo che anche Sky
(che già ha in bilancio un peso dei costi di acquisizione dei diritti che
mangia da solo il 66% dei costi totali) sta accelerando sull’autoproduzione. Ed è per questo che Mediaset ha avuto in primavera una programmazione così debole:
con la pubblicità in calo fino a giugno
hanno pensato che era inutile giocarsi cartucce buone ora e le hanno rinviate nel palinsesto autunnale, che
verrà presentato a fine giugno, e che punta a intercettare il rimbalzo del
mercato nel secondo semestre. Ma questo è cabotaggio. Resta il problema nella
visione di lungo periodo. E la cosa non è semplice. Perché se a tutti piace lo
scenario virtuale del grande accordo, poi, nei fatti, realizzarlo non è affatto
semplice. E in verità al momento sono di più quelli che remano contro. I
problemi maggiori sono in casa Mediaset
dove - a quanto risulta - la spaccatura è forte: da una parte Pier Silvio Berlusconi e Franco Ricci, dall’altra Fedele Confalonieri, Gina Nieri
e Marco Giordani. I primi due ancora convinti di un modello di tv verticale e integrato, sono i creatori della pay tv e i più restii ad ammetterne il fallimento. Gli altri invece sono più
aperti (per non dire convinti) all’idea di una Mediaset in stile «major»: simile a Sky, aggregatore di contenuti,
gestore di diritti e produttore in proprio. Assolutamente neutrale sulle
piattaforme da usare. E’ a loro che può far riferimento l’accordo della
settimana scorsa con Italia Online a cui verranno forniti video. Mentre Pier Silvio è accreditato di sostenere
un progetto rubricato con il nome di
Infinity e che punta a realizzare
una piattaforma di distribuzione in proprio: in pratica un’estensione di Premium anche al web per gli utenti multiscreen.
Ma è una strategia anacronistica e
che per di più richiede molte risorse
e ha tempi di ritorno molto più lunghi e
incerti. Soldi in casa Fininvest - non illudano i rialzi di Borsa - non ce
ne sono a sufficienza. Tanto più che c’è anche la ristrutturazione Mondadori da
gestire. La «tv delle larghe intese»
rischia di naufragare sul nascere. Ancor più che il governo.
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