mercoledì 22 maggio 2013

Mediaset: le “larghe intese” tv di Confalonieri, la “resistenza” di Pier Silvio


da: la Repubblica

Tv, c’è un piano “larghe intese” ma Mediaset frena e si spacca
Il Biscione è diviso. Da una parte Pier Silvio che vuole salvare la Pay e il modello di integrazione verticale, dall’altra Confalonieri, più aperto all’idea di fare una piattaforma comune con Rai e La7 per portare sul web tutto il sistema
di Stefano Carli

La pubblicità continua ad andare giù. Altro meno 18% alla fine di questo primo semestre, si prevede. Forse il calo si fermerà a meno 10% a fine anno. E sarà meno 10% anche per la media delle tv: ma gli incumbent, i primi sette canali del telecomando, le ammiraglie Rai e Mediaset più La7 faranno meno 12,2%. In sette anni, dal 2006, il mercato pubblicitario italiano ha perso il 30% del suo valore: da 10 a 7 miliardi. Un gigante come Unilever che spendeva in Italia 90 milioni l’anno, ha tagliato il budget a 65 milioni. Indietro non si tornerà e le tv devono prepararsi a operare in questo scenario. Non bisogna lasciarsi ingannare dal rally di Borsa dei titoli della scuderia berlusconiana. Il listino segue logiche brevi. I bilanci no. E infatti l’ultimo report di SocGen su Mediaset parla di ricavi in calo e stabili sui 3,4 miliardi nei prossimi tre anni (3,7 nel 2012) e margini in drastico calo. Le tv dovranno fare come stanno facendo gli editori della carta. Ma almeno questi hanno la prospettiva di passare al digitale. Le tv digitali lo sono già. E allora? Allora questo è un mercato
che deve cambiare se non vuole imboccare la via di un declino che potrà essere lungo, ma ineluttabile. Se tutto restasse così com’è. Le vie d’uscita? A viale Mazzini come a Cologno Monzese ci si pensa. Ci pensano anche in Sky, dove hanno problemi un po’ diversi. E ci pensa anche Cairo alle prese in queste settimane con la presa di controllo di La7, dove ha appena confermato come ad Marco Ghigliani che ha ribadito la strategia dei tagli: dopo la Dandini, via anche la Parodi maggiore. Uno scenario ideale ci sarebbe. E lo conoscono tutti. Funzionerebbe così: Rai, Mediaset e La7 uniscono le forze e realizzano una piattaforma italiana per l’accesso da Internet ai palinsesti di tutti: concorrenza tra i network come oggi su contenuti e raccolta pubblicitaria ma costi di gestione in sinergia, compresa la eventuale riscossione di contenuti premium a pagamento. Vantaggio: schivare il rischio di essere marginalizzati dalle Internet company. Giovedì, scorso, per dire, Google, che già aveva presentato la settimana prima il lancio della sua «pay tv» su YouTube, ha annunciato che sempre YouTube offrirà sul mercato la possibilità di mettere in rete «dirette tv» in streaming. Non lo offrirà certo agli utenti della rete, i blogger e al crowd journalism ma alle major e a chi produce news e fiction e trasmette in diretta eventi (campionati, olimpiadi), ossia alle tv. Non è sufficiente? Allora basta pensare che Netflix ha in bilancio 300 milioni di dollari per produrre fiction in proprio e lo stesso sta facendo Amazon. Insomma, il rischio è che domani per vedere un programma Mediaset o Rai via Internet si debba andare su You Tube. O, peggio, che Rai, Mediaset e compagnia si riducano a livello delle tv locali di oggi. Secondo passaggio: Rai, Mediamiliardo set e La7 assieme sul satellite per poter fare una «vera» alta definizione liberando le frequenze terrestri che costano di più e che a breve l’Ue toglierà alle tv per darle alle telco. Vantaggio per le casse pubbliche degli Stati, che le daranno a caro prezzo, o comunque a un prezzo molto maggiore delle poche decine di milioni - pare 40 - che potrebbe essere il valore di base per la famosa asta delle frequenze ex beauty contest, che potrebbe svolgersi prima dell’estate. Vantaggio per i broadcaster: la gestione di un canale terrestre costa 3-4 milioni l’anno, quella di un canale satellitare la decima parte. E gli investimenti li fanno gli operatori satellitari, Eutelsat e Ses, che stanno intensificando le visite a Viale Mazzini e a Cologno. Nelle more di questi passaggi, lo scenario prima o poi prevederà anche che Mediaset rinunci alla sua pay-tv. Non è una novità: sono mesi che si favoleggia di un acquirente. Ma gli sceicchi sono ricchi però non stupidi e non arriverà nessuno. O almeno nessuno che si basi su puri calcoli di ritorno dell’investimento. Ne consegue che per Mediaset Premium esiste un unico potenziale acquirente: Sky. D’altra parte Sky e Mediaset un primo accordo operativo l’hanno raggiunto, visto che entrambe offrono in pay tutte le partite di calcio, mentre se le erano aggiudicate in pacchetti separati e pensati per farsi concorrenza. E che non ci sia più spazio per due pay in concorrenza lo pensa tutto il mercato, oggi. Mediaset non può ragionevolmente immaginare di ripianare le perdite di Premium se anche Sky, che nel frattempo ha perso 200 mila utenti, scendendo da 5 a 4,8 milioni, ha visto il risultato operativo del primo trimestre scendere a un quarto del valore dello scorso anno. In molti guardano a questo scenario futuribile come una via d’uscita. Alcuni pensano che non abbia alternative. La logica di fondo è riassumibile facilmente: bisogna smontare le vecchie tv integrate verticalmente, dalla telecamera all’antenna. «Se si vuole valorizzare al meglio i propri contenuti, visti anche i costi di acquisizione o di produzione - spiega Alessandro Araimo, senior partner di Roland Berger - bisogna andare su tutte le piattaforme. In un sistema integrato verticalmente si penalizza, di contro, proprio il valore potenziale dei contenuti. E si innesca un circolo vizioso: meno ricavi da contenuti, meno risorse per produrne e comprarne di nuovi. Una spirale di declino». Un handicap tanto più grave se si pensa che i costi dei diritti stanno di nuovo lievitando. Proprio per l’incremento di domanda che viene dalle Internet company. E’ anche per questo che Amazon e Netflix stanno entrando (o almeno minacciano di farlo) nella produzione. E’ per questo che anche Sky (che già ha in bilancio un peso dei costi di acquisizione dei diritti che mangia da solo il 66% dei costi totali) sta accelerando sull’autoproduzione. Ed è per questo che Mediaset ha avuto in primavera una programmazione così debole: con la pubblicità in calo fino a giugno hanno pensato che era inutile giocarsi cartucce buone ora e le hanno rinviate nel palinsesto autunnale, che verrà presentato a fine giugno, e che punta a intercettare il rimbalzo del mercato nel secondo semestre. Ma questo è cabotaggio. Resta il problema nella visione di lungo periodo. E la cosa non è semplice. Perché se a tutti piace lo scenario virtuale del grande accordo, poi, nei fatti, realizzarlo non è affatto semplice. E in verità al momento sono di più quelli che remano contro. I problemi maggiori sono in casa Mediaset dove - a quanto risulta - la spaccatura è forte: da una parte Pier Silvio Berlusconi e Franco Ricci, dall’altra Fedele Confalonieri, Gina Nieri e Marco Giordani. I primi due ancora convinti di un modello di tv verticale e integrato, sono i creatori della pay tv e i più restii ad ammetterne il fallimento. Gli altri invece sono più aperti (per non dire convinti) all’idea di una Mediaset in stile «major»: simile a Sky, aggregatore di contenuti, gestore di diritti e produttore in proprio. Assolutamente neutrale sulle piattaforme da usare. E’ a loro che può far riferimento l’accordo della settimana scorsa con Italia Online a cui verranno forniti video. Mentre Pier Silvio è accreditato di sostenere un progetto rubricato con il nome di Infinity e che punta a realizzare una piattaforma di distribuzione in proprio: in pratica un’estensione di Premium anche al web per gli utenti multiscreen. Ma è una strategia anacronistica e che per di più richiede molte risorse e ha tempi di ritorno molto più lunghi e incerti. Soldi in casa Fininvest - non illudano i rialzi di Borsa - non ce ne sono a sufficienza. Tanto più che c’è anche la ristrutturazione Mondadori da gestire. La «tv delle larghe intese» rischia di naufragare sul nascere. Ancor più che il governo.

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