Un
monito a chi parla di moralismo
Il
discorso, più impegnativo finora tenuto da Francesco sui temi sociali, è
passato, almeno in Italia, piuttosto inosservato, nonostante contenesse una
puntuale denuncia delle cause dello squilibrio sociale
di
Andrea Tornielli
Papa Francesco davanti alla folla di fedeli
ha ripetuto ieri sera (sabato) che la
Chiesa non è un’organizzazione politica né una Ong. Eppure ha pronunciato
giudizi così netti e chiari sulla povertà, sulla crisi e sulle sue cause, quali
ormai quasi nessun leader politico sembra più in grado di fare.
«Se cadono gli investimenti, le banche,
tutti a dire che è una tragedia. Se le famiglie stanno male, non hanno da
mangiare se la gente muore di fame allora non fa niente... Questa è la nostra
crisi». E la crisi non è «solo economica o culturale» ma è «una crisi
dell’uomo». «Nella vita pubblica - ha spiegato - se non c’è l’etica tutto è
possibile. Lo leggiamo i giornali quanto la mancanza di etica fa tanto male
all’umanità intera».
Queste parole dette a braccio durante la veglia di Pentecoste, in risposta a una domanda su quella «Chiesa povera per i poveri» che il primo Papa con il nome del Poverello d’Assisi aveva detto di sognare all’indomani dell’elezione, seguono di tre giorni un altro suo importante discorso. Ricevendo le credenziali di quattro nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, giovedì scorso, Bergoglio aveva parlato loro delle radici della crisi finanziaria e del divario tra poveri e ricchi, denunciando il «feticismo» del denaro e la «dittatura» di un’economia senza volto che considera l’essere umano «come un bene di consumo».
Questo discorso, il più impegnativo finora tenuto da Francesco sui temi sociali, è passato, almeno in Italia, piuttosto in sordina, nonostante contenesse una puntuale denuncia (o forse proprio per questa) delle cause dello squilibrio sociale. Derivante, a detta del Papa, «da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune».
Ieri, ai rappresentanti dei movimenti,
Francesco ha richiamato la radicalità evangelica spiegando che di fronte alla
crisi economica e alla crisi dell’etica pubblica, il principale e più efficace
contributo che i cristiani possono dare è quello di testimoniare il Vangelo: uscire da se stessi, dai propri circoli
autoreferenziali, smettere di essere «cristiani inamidati che discutono di
teologia bevendo il tè» nei salotti, per andare davvero incontro ai poveri,
a chi ha bisogno.
Ha spiegato che la carità «non è una categoria sociologica». E ha detto che per i cristiani andare verso i poveri significa andare «verso la carne di Cristo»: dunque questo impegno concreto è connaturale all’esperienza di fede veramente vissuta e testimoniata. Un messaggio forte indirizzato a tutti, ma che nell’accenno all’etica pubblica rappresenta un richiamo particolare a quanti sono impegnati in politica. In tanti, troppi casi, anche in casa cattolica, i richiami all’etica sono stati talvolta irrisi e bollati come «moralismo» da chi ha coperto l’immoralità e così facendo ha finito per incidere sulla vita concreta di tante persone.
Fin dai primi passi del nuovo pontificato, non sono mancati circoli intellettuali che hanno definito come «pauperistico» l’atteggiamento di Francesco, dimenticando che il nuovo Papa i poveri li ha conosciuti e frequentati davvero nelle «villas miserias» di Buenos Aires. E dimenticando pure che dei poveri si parla nei Vangeli scritti diciassette secoli prima del Capitale di Marx.
Che mondo abbiamo costruito, si è chiesto Francesco, se un barbone che muore di freddo non è più notizia o se la morte di tanti bambini per fame è una realtà alla quale abbiamo fatto l’abitudine? Il Papa, aveva detto giovedì agli ambasciatori, «ama tutti, ricchi e poveri» ma «ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo». Almeno è rimasto qualcuno a ricordarcelo.
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