lunedì 6 maggio 2013

Adriano Sofri: “La denuncia e lo scandalo”




Sottoscrivo queste osservazioni di Sofri: “Ora non si può più scrivere quello che ti dice il tassista, perché il tassista lo sta scrivendo lui, e intanto guida. L’uomo della strada è in larga misura l’uomo della rete. E se è un uomo maschio, dice le stesse porcherie, con un compiacimento in più, come sempre quando si ha un pubblico, e si è alzato il gomito — la rete, a non controllarsi, ubriaca. Gli è stato dato uno sgabello, se non una tribuna. Ci si scrive tutto, dunque anche quello che si scriveva sulle pareti dei cessi (maschili)…


da: la Repubblica

Dunque: nell’intervista di Laura Boldrini a Concita De Gregorio (clicca qui) non si è deprecata alcuna “anarchia del web”, e non si è promossa alcuna campagna per leggi speciali che riportino all’ordine l’anarchia. Allora, si è trattato di una tempesta in un bicchier d’acqua? Al contrario: era la disputa fra difensori della libertà della rete e fautori di una sua regolamentazione (come se non ce ne fosse) a offuscare la questione essenziale. Cioè la denuncia pubblica, da parte di una donna promossa da poco a ricoprire una carica molto alta, della quantità e della qualità di canaglie che popolano la nostra comunità. Il repertorio di insulti, minacce, fantasie di violenze che la pagina di Repubblica sciorinava è una notizia importante sulla nostra salute mentale e sulla nostra maturità civile.

Avrebbe potuto tacerne, la presidente della Camera, e avrebbe tolto agli italiani un criterio attraverso cui valutare a che punto è “la crisi”, non meno importante dei dati economici o finanziari di cui si segue febbrilmente l’andamento. Non avrebbero potuto parlarne altri, il presidente della Repubblica o del Senato o della Consulta o di (quasi) tutto il resto, perché a codeste autorità, anche le più degne e rispettabili, non vengono indirizzate migliaia di messaggi per annunciare sodomizzazioni di banda, orge extracomunitarie e stupri seguiti da sgozzamenti e così via. Le pari opportunità, quando si dia loro attuazione, hanno anche questo di prezioso, che nel giro di una mezzora ci mostrano come stiamo – malissimo, grazie – noi cittadini italiani di sesso maschile.
È un automatismo, come conferma la storia simultanea del ministro Cécile Kyenge, donna, nera e fiera. La violenza delle reazioni è in proporzione alla frustrazione che segnala. Nel nostro caso, la rabbia contro donne che prendono posti importanti è esasperata dal rapporto di ambedue – la bianca e la nera – con l’immigrazione: nella cui fobia, come in ogni razzismo, l’insicurezza sessuale ha un peso decisivo. La paura di uomini spodestati dal loro seggiolone di potenti e di maschi. Rivalità di maschi che del resto non cancella per intero la somiglianza, sicché le violenze, fino agli stupri e agli assassinii, covano sotto la pellicola delle nostre maniere emancipate come sotto la scorza arcaica dei nuovi arrivi. (Adesso siamo alle facce vetrioleggiate, esecutori passanti, committenti locali). Ma gli uni e gli altri, i modernissimi traditi da un raptus inspiegabile e i nuovi arrivati fedeli al retaggio patriarcale, appartengono a un linguaggio comune illeso da modernità e traslochi: un linguaggio che pressoché non conosce altro modo per schernire, insultare, sfidare e battere se non quello della allusione e della sopraffazione sessuale.
La rivoluzione culturale appropriata a un altro rapporto fra uomini e donne avrebbe bisogno di un vocabolario rivisto da capo a fondo, nelle parole e nei gesti, e oltretutto questa non può essere l’opera della correttezza politica, ma della pratica quotidiana, privata e pubblica. Non sarà un fucilino da bambini di colore neutro a riscattare una civiltà di fucilini azzurri e rosa. Si muovono, i rapporti fra uomini e donne, sul doppio binario del tempo lungo (ma non rinviabile) del cambiamento di mentalità e abitudini, e del tempo brevissimo, immediato, della forza della legge. La quale c’è, e va applicata, ogni volta che si tratti di impedire e sventare, e non solo reprimere, una violenza contro l’incolumità personale; e quando non sia sufficiente —come, a mio parere, nei confronti dei minacciatori delle “proprie” donne — va introdotta.
È di questi giorni l’attacco degli hacker a parlamentari 5stelle. La violazione e la pubblicazione della corrispondenza personale, qualunque cosa contenga, è ignobile. Il pretesto invocato — costringere i capi del movimento alla coerenza con i propri proclami di trasparenza — non ne costituisce un’attenuante, anzi. Ma sono altrettanto rivelatrici e insopportabili le mezze citazioni pruriginose che la stampa, magari fingendo di scandalizzarsene, fornisce sulle mail violate. Anche qui, non a caso, donne ed episodi sessuali tengono il primo posto.
Della libertà della rete e dei suoi limiti non so abbastanza. Ne sono un avventore molto ordinario. Per me è l’infinito e irraggiungibile brusio dei parlanti che prima non si sentiva, e ora si sente. La mediazione vi si riduce al minimo: è piuttosto la corsa verso una mappa del mondo sulla scala di uno a uno. Ammazza il giornalismo, forse. Ora non si può più scrivere quello che ti dice il tassista, perché il tassista lo sta scrivendo lui, e intanto guida. L’uomo della strada è in larga misura l’uomo della rete. E se è un uomo maschio, dice le stesse porcherie, con un compiacimento in più, come sempre quando si ha un pubblico, e si è alzato il gomito — la rete, a non controllarsi, ubriaca. Gli è stato dato uno sgabello, se non una tribuna. Ci si scrive tutto, dunque anche quello che si scriveva sulle pareti dei cessi (maschili). Vi sarete accorti infatti che sulle pareti dei cessi si scrive meno. Leggi speciali sull’uso dei gabinetti non sarebbero andate lontano. Nemmeno sull’uso della rete. Il problema sono gli avventori. Chiedete agli inservienti che devono tenerli puliti, o alla polizia postale.

Nessun commento:

Posta un commento