martedì 7 maggio 2013

Cinema: la grande commedia che ha interpretato i nostri vizi



da: Il Sole 24 Ore

Amici miei, soliti ignoti e nuovi mostri: la grande commedia che ha interpretato i nostri vizi

La commedia come specchio del (bel)paese: nessun altro genere cinematografico è riuscito a rappresentare con eguale lucidità i (tanti) vizi e le (poche) virtù dell'italiano medio.
L'espressione "commedia all'italiana" fu coniata parafrasando il titolo del film «Divorzio all'italiana» di Pietro Germi del 1961, ma gli apripista del filone si fanno risalire alla prima metà degli anni '50.

Dal neorealismo rosa al boom economico
In contrasto con i drammi neorealisti degli anni '40, all'inizio degli anni '50 nasce un nuovo filone, il cosiddetto "neorealismo rosa", che offre una caricatura pittoresca della realtà dell'epoca. Capofila del genere è «Pane, amore e fantasia» (1953) di Luigi Comencini: ambientato in un paesino dell'Italia centrale, narra la vita della giovane Maria (nota come "la bersagliera") interpretata da Gina Lollobrigida, e del maresciallo Antonio Carotenuto (Vittorio De Sica), donnaiolo attempato appena trasferitosi in quella piccola realtà. Con l'aiuto della domestica Caramella, una vivace Tina Pica, il maresciallo cercherà di adattarsi alla monotona vita di provincia.


L'anno seguente, uno dei più grandi successi italiani è il satirico «Un americano a Roma» di Steno, che ben tratteggia il mito esterofilo degli anni ‘50, universalmente ricordato per la sequenza in cui Alberto Sordi-Nando Mericoni non sa resistere a un piatto di spaghetti.
Sul finire degli anni '50 il genere dà voce a una nuova tendenza: la centralità della coppia e il lieto fine lasciano spazio all'osservazione di comportamenti e fenomeni socialmente diffusi e lo sguardo del regista diventa cinico e disincantato, in alcuni casi persino di denuncia.
Anche in questo senso, il film capolavoro della commedia all'italiana è «I soliti ignoti» (1958) di Mario Monicelli, dove un gruppo di ladruncoli si cimenta in un grande furto a un banco dei pegni: dietro ai personaggi, ritratti come simpatiche macchiette, si celano diversi "tipi sociali" del periodo. Indimenticabile la scena finale, in cui il gruppo (di cui fanno parte Totò, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Tiberio Murgia, Renato Salvatori e Carlo Pisacane) fa saltare la parete sbagliata e si ritrova senza soldi ma con un'ottima porzione di pasta e ceci.
Con l'avvento degli anni '60, l'interesse del filone si concentra sul boom economico e sulle contraddizioni che il consumismo crea nel tessuto sociale. Il film più rappresentativo da questo punto di vista è «Il sorpasso» (1962) di Dino Risi, uno dei titoli più importanti del decennio, in cui Bruno, quarantenne cialtronesco e amante della guida sportiva interpretato da Vittorio Gassman, cerca di svezzare un timido studente di legge (Jean-Louis Trintignant) suggerendogli i modi migliori per vivere e divertirsi.

Risi successivamente si cimenterà con «I mostri» (1963), pellicola a episodi in cui viene denunciato l'opportunismo tipico di un'ampia fetta del popolo italiano del periodo (un esempio significativo è nel capitolo «L'educazione sentimentale», con Ugo e Ricky Tognazzi.
Nonostante siano gli anni del boom, alcuni registi mostrano come l'Italia sia ancora un paese antiquato da diversi punti di vista. Particolarmente incisivo in questo senso è Pietro Germi, autore di «Divorzio all'italiana» (la pellicola che dà il nome al genere, con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli), in cui con una scrittura brillante e un acuto sarcasmo stilistico, mostra come in mancanza di una legge sul divorzio, grazie agli sconti di pena concessi sul delitto d'onore, si possa ricorrere all'omicidio del coniuge.
L'arretratezza, morale ancor prima che culturale, del paese verrà proposta ancora da Germi in «Sedotta e abbandonata» (1964), la vetta della sua carriera, e in «Signore e signori» (1965).

Gli ospedali
Tra i luoghi cardine della commedia all'italiana ci sono gli ospedali e gli studi medici: il problema dell'assistenza sanitaria era già "di moda" sul finire degli anni '60 e diversi registi hanno deciso di raccontarne i risvolti più grotteschi e le conseguenze più inaspettate.
Ugo Tognazzi, ad esempio, torna dietro la macchina da presa (dopo il misconosciuto esordio «Il mantenuto» del 1961) con il paradossale «Il fischio al naso» (1967), ispirato a un racconto di Dino Buzzati, in cui interpreta un industriale lombardo, che viene ricoverato in clinica a causa di un fastidioso "fischio al naso". Con vari pretesti verrà trasferito da un reparto all'altro, dal primo all'ultimo piano dove infine morirà.
Altra figura storica di questo sottogenere è quella del dottor Guido Tersilli, interpretato da Alberto Sordi per la prima volta ne «Il medico della mutua» (1968) di Luigi Zampa: deciso a monetizzare al più presto la sua laurea in medicina, il protagonista punterà tutta la sua attenzione sul popolo dei mutuati, un esercito di malati da sfruttare per poter fare cassa e carriera.
Il personaggio, cinico e brutalmente realistico, tornerà un anno dopo, ancora più avido e noncurante della salute dei suoi pazienti, nel seguito «Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue», firmato da Luciano Salce.

Ossessioni italiane
Le principali ossessioni dell'italiano medio, sul grande schermo e non solo, sono rappresentate dal sesso e dai soldi, due argomenti immancabili nelle pellicole degli anni ‘70.
Archetipo impegnato della "commediaccia sexy" è «Il merlo maschio» (1971) di Pasquale Festa Campanile, dove Lando Buzzanca incarna perfettamente inibizioni ed esaltazioni sessuali (in questo caso, la preda è il corpo mozzafiato di Laura Antonelli) del maschio italiano.

Mentre negli anni '70 la donna diventa sempre più libera ed emancipata, in altri titoli l'uomo rimarrà ancora prigioniero del cosiddetto "codice d'onore": un valido esempio ci viene offerto da Giancarlo Giannini in «Mimì metallurgico ferito nell'onore» (1972) di Lina Wertmüller, dove un operaio infedele che si considera di aperte vedute, non riesce a perdonare il tradimento della moglie e, per vendicarsi, decide di sedurre la sgraziata consorte del rivale.
La fissazione di ottenere facilmente del denaro (senza lavorare, naturalmente) è l'altra grande tematica del genere: tra i tanti, «Febbre da cavallo» (1976) di Steno, in cui viene tratteggiato un mondo di folli sognatori che scommettono sulle corse dei cavalli per cambiare la propria vita e, regolarmente, ci rimettono.

Il cinema corale
Negli anni '70, la commedia si fa sempre più ricca di pellicole corali, dove sono protagonisti gruppetti di personaggi interpretati da alcuni dei nomi più importanti del nostro cinema.
Quattordici anni dopo il successo de «I mostri», Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman si ritrovano (con l'aggiunta di Alberto Sordi ed Eros Pagni) ne «I nuovi mostri» (1977), film diviso in 14 episodi: 7 diretti da Ettore Scola, 5 da Dino Risi e 2 da Mario Monicelli. Rispetto alla pellicola precedente, la satira risulta sempre più amara e cinica (come nell'episodio «Senza parole» con Ornella Muti, solo raramente alternata con sequenze puramente comiche.
Monicelli qualche anno prima diresse un altro film corale di grande successo: «Amici miei» (1975), teatro delle "zingarate" di quattro inseparabili amici fiorentini interpretati da Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Duilio Del Prete e Philippe Noiret. Ideato da Pietro Germi (che non riuscì a dirigerlo perché scomparve pochi mesi prima dell'inizio delle riprese), «Amici miei» viene ricordato per le tante scene cult (in primis, gli schiaffi alla stazione e darà il via a una trilogia che proseguirà nel 1982 (il secondo atto, diretto sempre da Monicelli) e nel 1985 (l'atto terzo, per la regia di Nanni Loy).
Mentre Risi non riesce più a eguagliare gli ottimi esiti dei decenni precedenti, Ettore Scola realizza negli anni '70 prodotti di spicco come «C'eravamo tanto amati» (1974), commedia dai toni nostalgici con Vittorio Gassman e Nino Manfredi.

Luciano Salce
Regista tra i più sottovalutati della storia del nostro cinema, Luciano Salce è stato uno dei più grandi autori della commedia negli anni '70. Il suo nome richiama immediatamente quello del ragionier Fantozzi, protagonista di una saga durata dieci film, di cui Salce diresse i primi due capitoli: «Fantozzi» del 1975 e «Il secondo tragico Fantozzi» del 1976. Il personaggio, ideato e interpretato da Paolo Villaggio, è rimasto nell'immaginario popolare per la sua capacità di rappresentare, in maniera tragicomica, turbamenti e idiosincrasie dell'italiano del periodo. Fantozzi riesce sempre a far ridere, seppur a denti stretti, sia quando si trova a giocare a biliardo con il suo capo, sia quando dice la sua sul "cinema d'autore".
Altro titolo memorabile firmato Luciano Salce, è «L'anatra all'arancia» (1975), in cui Ugo Tognazzi e Monica Vitti vestono i panni di Livio e Lisa, una coppia in grave crisi. Deciso a riconquistare la moglie a tutti i costi, Livio adotta una tattica piuttosto sottile: invitare Lisa e il suo amante Jean-Claude per un weekend al mare. Ai tre si unisce Patty, la disinibita segretaria di Livio, interpretata da Barbara Bouchet. Tra balli in discoteca e "prelibatezze culinarie", il film, a modo suo, è un anticonvenzionale inno alla famiglia e alla vita coniugale.

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