da: Il Sole 24 Ore
Amici
miei, soliti ignoti e nuovi mostri: la grande commedia che ha interpretato i
nostri vizi
La commedia come specchio del (bel)paese:
nessun altro genere cinematografico è riuscito a rappresentare con eguale
lucidità i (tanti) vizi e le (poche) virtù dell'italiano medio.
L'espressione "commedia
all'italiana" fu coniata parafrasando il titolo del film «Divorzio
all'italiana» di Pietro Germi del 1961, ma gli apripista del filone si fanno
risalire alla prima metà degli anni '50.
Dal
neorealismo rosa al boom economico
In contrasto con i drammi neorealisti degli
anni '40, all'inizio degli anni '50 nasce un nuovo filone, il cosiddetto
"neorealismo rosa", che offre una caricatura pittoresca della realtà
dell'epoca. Capofila del genere è «Pane, amore e fantasia» (1953) di Luigi
Comencini: ambientato in un paesino dell'Italia centrale, narra la vita della
giovane Maria (nota come "la bersagliera") interpretata da Gina Lollobrigida,
e del maresciallo Antonio Carotenuto (Vittorio De Sica), donnaiolo attempato
appena trasferitosi in quella piccola realtà. Con l'aiuto della domestica
Caramella, una vivace Tina Pica, il maresciallo cercherà di adattarsi alla
monotona vita di provincia.
L'anno seguente, uno dei più grandi
successi italiani è il satirico «Un americano a Roma» di Steno, che ben
tratteggia il mito esterofilo degli anni ‘50, universalmente ricordato per la
sequenza in cui Alberto Sordi-Nando Mericoni non sa resistere a un piatto di
spaghetti.
Sul finire degli anni '50 il genere dà voce
a una nuova tendenza: la centralità della coppia e il lieto fine lasciano
spazio all'osservazione di comportamenti e fenomeni socialmente diffusi e lo
sguardo del regista diventa cinico e disincantato, in alcuni casi persino di
denuncia.
Anche in questo senso, il film capolavoro
della commedia all'italiana è «I soliti ignoti» (1958) di Mario Monicelli, dove
un gruppo di ladruncoli si cimenta in un grande furto a un banco dei pegni:
dietro ai personaggi, ritratti come simpatiche macchiette, si celano diversi
"tipi sociali" del periodo. Indimenticabile la scena finale, in cui
il gruppo (di cui fanno parte Totò, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni,
Tiberio Murgia, Renato Salvatori e Carlo Pisacane) fa saltare la parete
sbagliata e si ritrova senza soldi ma con un'ottima porzione di pasta e ceci.
Con l'avvento degli anni '60, l'interesse
del filone si concentra sul boom economico e sulle contraddizioni che il
consumismo crea nel tessuto sociale. Il film più rappresentativo da questo
punto di vista è «Il sorpasso» (1962) di Dino Risi, uno dei titoli più
importanti del decennio, in cui Bruno, quarantenne cialtronesco e amante della
guida sportiva interpretato da Vittorio Gassman, cerca di svezzare un timido
studente di legge (Jean-Louis Trintignant) suggerendogli i modi migliori per
vivere e divertirsi.
Risi successivamente si cimenterà con «I
mostri» (1963), pellicola a episodi in cui viene denunciato l'opportunismo tipico
di un'ampia fetta del popolo italiano del periodo (un esempio significativo è
nel capitolo «L'educazione sentimentale», con Ugo e Ricky Tognazzi.
Nonostante siano gli anni del boom, alcuni
registi mostrano come l'Italia sia ancora un paese antiquato da diversi punti
di vista. Particolarmente incisivo in questo senso è Pietro Germi, autore di «Divorzio
all'italiana» (la pellicola che dà il nome al genere, con Marcello Mastroianni
e Stefania Sandrelli), in cui con una scrittura brillante e un acuto sarcasmo
stilistico, mostra come in mancanza di una legge sul divorzio, grazie agli
sconti di pena concessi sul delitto d'onore, si possa ricorrere all'omicidio
del coniuge.
L'arretratezza, morale ancor prima che
culturale, del paese verrà proposta ancora da Germi in «Sedotta e abbandonata»
(1964), la vetta della sua carriera, e in «Signore e signori» (1965).
Gli
ospedali
Tra i luoghi cardine della commedia
all'italiana ci sono gli ospedali e gli studi medici: il problema
dell'assistenza sanitaria era già "di moda" sul finire degli anni '60
e diversi registi hanno deciso di raccontarne i risvolti più grotteschi e le
conseguenze più inaspettate.
Ugo Tognazzi, ad esempio, torna dietro la
macchina da presa (dopo il misconosciuto esordio «Il mantenuto» del 1961) con
il paradossale «Il fischio al naso» (1967), ispirato a un racconto di Dino
Buzzati, in cui interpreta un industriale lombardo, che viene ricoverato in
clinica a causa di un fastidioso "fischio al naso". Con vari pretesti
verrà trasferito da un reparto all'altro, dal primo all'ultimo piano dove
infine morirà.
Altra figura storica di questo sottogenere
è quella del dottor Guido Tersilli, interpretato da Alberto Sordi per la prima
volta ne «Il medico della mutua» (1968) di Luigi Zampa: deciso a monetizzare al
più presto la sua laurea in medicina, il protagonista punterà tutta la sua
attenzione sul popolo dei mutuati, un esercito di malati da sfruttare per poter
fare cassa e carriera.
Il personaggio, cinico e brutalmente
realistico, tornerà un anno dopo, ancora più avido e noncurante della salute
dei suoi pazienti, nel seguito «Il prof. dott. Guido Tersilli primario della
clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue», firmato da Luciano Salce.
Ossessioni
italiane
Le principali ossessioni dell'italiano
medio, sul grande schermo e non solo, sono rappresentate dal sesso e dai soldi,
due argomenti immancabili nelle pellicole degli anni ‘70.
Archetipo impegnato della
"commediaccia sexy" è «Il merlo maschio» (1971) di Pasquale Festa
Campanile, dove Lando Buzzanca incarna perfettamente inibizioni ed esaltazioni
sessuali (in questo caso, la preda è il corpo mozzafiato di Laura Antonelli)
del maschio italiano.
Mentre negli anni '70 la donna diventa
sempre più libera ed emancipata, in altri titoli l'uomo rimarrà ancora
prigioniero del cosiddetto "codice d'onore": un valido esempio ci
viene offerto da Giancarlo Giannini in «Mimì metallurgico ferito nell'onore»
(1972) di Lina Wertmüller, dove un operaio infedele che si considera di aperte
vedute, non riesce a perdonare il tradimento della moglie e, per vendicarsi,
decide di sedurre la sgraziata consorte del rivale.
La fissazione di ottenere facilmente del
denaro (senza lavorare, naturalmente) è l'altra grande tematica del genere: tra
i tanti, «Febbre da cavallo» (1976) di Steno, in cui viene tratteggiato un
mondo di folli sognatori che scommettono sulle corse dei cavalli per cambiare
la propria vita e, regolarmente, ci rimettono.
Il
cinema corale
Negli anni '70, la commedia si fa sempre
più ricca di pellicole corali, dove sono protagonisti gruppetti di personaggi
interpretati da alcuni dei nomi più importanti del nostro cinema.
Quattordici anni dopo il successo de «I
mostri», Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman si ritrovano (con l'aggiunta di
Alberto Sordi ed Eros Pagni) ne «I nuovi mostri» (1977), film diviso in 14
episodi: 7 diretti da Ettore Scola, 5 da Dino Risi e 2 da Mario Monicelli.
Rispetto alla pellicola precedente, la satira risulta sempre più amara e cinica
(come nell'episodio «Senza parole» con Ornella Muti, solo raramente alternata
con sequenze puramente comiche.
Monicelli qualche anno prima diresse un
altro film corale di grande successo: «Amici miei» (1975), teatro delle
"zingarate" di quattro inseparabili amici fiorentini interpretati da
Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Duilio Del Prete e Philippe Noiret. Ideato da
Pietro Germi (che non riuscì a dirigerlo perché scomparve pochi mesi prima
dell'inizio delle riprese), «Amici miei» viene ricordato per le tante scene
cult (in primis, gli schiaffi alla stazione e darà il via a una trilogia che
proseguirà nel 1982 (il secondo atto, diretto sempre da Monicelli) e nel 1985
(l'atto terzo, per la regia di Nanni Loy).
Mentre Risi non riesce più a eguagliare gli
ottimi esiti dei decenni precedenti, Ettore Scola realizza negli anni '70
prodotti di spicco come «C'eravamo tanto amati» (1974), commedia dai toni
nostalgici con Vittorio Gassman e Nino Manfredi.
Luciano
Salce
Regista tra i più sottovalutati della
storia del nostro cinema, Luciano Salce è stato uno dei più grandi autori della
commedia negli anni '70. Il suo nome richiama immediatamente quello del
ragionier Fantozzi, protagonista di una saga durata dieci film, di cui Salce
diresse i primi due capitoli: «Fantozzi» del 1975 e «Il secondo tragico
Fantozzi» del 1976. Il personaggio, ideato e interpretato da Paolo Villaggio, è
rimasto nell'immaginario popolare per la sua capacità di rappresentare, in
maniera tragicomica, turbamenti e idiosincrasie dell'italiano del periodo.
Fantozzi riesce sempre a far ridere, seppur a denti stretti, sia quando si
trova a giocare a biliardo con il suo capo, sia quando dice la sua sul
"cinema d'autore".
Altro titolo memorabile firmato Luciano
Salce, è «L'anatra all'arancia» (1975), in cui Ugo Tognazzi e Monica Vitti
vestono i panni di Livio e Lisa, una coppia in grave crisi. Deciso a
riconquistare la moglie a tutti i costi, Livio adotta una tattica piuttosto
sottile: invitare Lisa e il suo amante Jean-Claude per un weekend al mare. Ai tre
si unisce Patty, la disinibita segretaria di Livio, interpretata da Barbara
Bouchet. Tra balli in discoteca e "prelibatezze culinarie", il film,
a modo suo, è un anticonvenzionale inno alla famiglia e alla vita coniugale.
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