da: la Repubblica
Basterebbe già questo, cioè la pura e
semplice cronaca dei fatti di questi anni, per capire e giustificare l’ovvio. E
cioè che affidare proprio al Cavaliere la presidenza della Convenzione per le
riforme istituzionali e costituzionali è sommamente dissennato. Ha fatto bene
Massimo D’Alema a dirlo per primo, in un’intervista al Corriere della
Sera, parlando di una candidatura «non inammissibile», ma di una
«forzatura inopportuna». E hanno fatto ancora meglio Stefano Fassina e Matteo
Renzi a ribadirlo, in una dichiarazione al nostro giornale: «Ora non esageriamo:
un conto è fare un governo con il Pdl perché non ci sono alternative, altro è
dare la Convenzione a Berlusconi. Non possiamo arrivare a trasformarlo in un
padre costituente». Meglio di così non si poteva dire. Ed è significativo che
una riflessione così netta e inequivocabile sia arrivata proprio dal sindaco di
Firenze, stimato dal centrodestra e non certo sospettabile di appartenere alla
schiera degli “odiatori dell’arci-nemico”, cioè degli anti-berlusconiani in
servizio permanente effettivo.
Qui non sono in gioco le trite categorie
ideologiche del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, con le quali troppe
volte una propaganda culturale egemone e corriva ha provato a liquidare in
questo arco teso del tempo l’alternativa tra destra e sinistra, oppure quella
tra sinistra riformista e sinistra radicale. È in gioco la storia italiana di
questi anni, che per quanto anomala non si può curvare fino al punto di farla
coincidere con la vicenda umana del Cavaliere. Di fronte a un risultato
elettorale che non ha prodotto vincitori e vinti, e al “male necessario” di un
governo di Grande Coalizione di cui
il Cavaliere detiene oggettivamente
la golden share, è comprensibile che il leader risorto della destra
populista sia irresistibilmente attratto dalla prospettiva di una palingenesi
finale, di un riscatto definitivo, etico e politico, che lo ri-legittimi agli
occhi del popolo (e non solo del “suo” popolo) e lo proietti finalmente nella
dimensione che lui stesso insegue da sempre, e inutilmente: quella dell’Uomo di
Stato. Una dimensione che non gli appartiene e non gli è mai appartenuta. Gli è
stata semmai più congeniale quella opposta: il campione paradossale e
rappresentativo di un’élite in perenne rivolta, il simbolo vivente e
combattente, se non dell’anti-Stato, sicuramente di un “altro Stato”.
La Convenzione è già di per sé una scorciatoia impropria verso un’improbabile
Terza Repubblica. Non serve nemmeno rievocare i precedenti, infausti perché
praticamente improduttivi (dalla Commissione Bozzi in poi) o nefasti perché
potenzialmente consociativi (l’ultima Bicamerale). Per fare le riforme
basterebbe il coraggio di un Parlamento responsabile e la forza dell’articolo
138 della Costituzione. Ma ammesso comunque che l’Italia di oggi abbia bisogno
di uno strumento del genere, affidarne la guida proprio al leader che più di
ogni altro ha diviso il Palazzo e il Paese, e che più di ogni altro ha
picconato le istituzioni, sarebbe davvero incomprensibile. Per tutti, eletti ed
elettori. I “falchi” rinvigoriti della destra berlusconiana reagiscono a
sproposito, evocando il veto infamante agli “impresentabili” o parlando di
«pregiudiziali inaccettabili». La vera questione è un’altra, e chiama in causa
la coerenza e la decenza.
Come ha giustamente ricordato Stefano Rodotà, già nel 2006 il Cavaliere
presentò e fece approvare a maggioranza al Parlamento una “sua” riscrittura
della Costituzione e della forma di governo, che fu bocciata da sedici milioni
di italiani con tanto di referendum confermativo. Come testimoniano le cronache
politiche di questi anni, il Cavaliere ha più volte teorizzato la sua idea di
“Repubblica presidenziale”, e propugnato l’elezione diretta del capo dello
Stato, candidandosi pubblicamente a rivestire anche quel ruolo. Ora, senza
alcuna acrimonia personale e politica, e con buona pace del suo Dottor
Stranamore per le vicende giudiziarie Niccolò Ghedini, Berlusconi non merita il
laticlavio di senatore a vita. Ma meno che mai merita il profilo di padre della
Patria, che invece conquisterebbe sul campo se fosse proprio lui a guidare
l’organismo deputato alla riscrittura di un gioco democratico che ha troppo
spesso manipolato, falsato, stravolto. La “Convenzione ad personam” sarebbe
davvero troppo. Persino per questa nuova, stupefacente “epifania” delle larghe
intese.
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