di Matteo
Miavaldi
Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano
Latorre, i due marò arrestati in
Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in
volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità
indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori
della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione
per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al
grado di eroi della patria.
La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera
italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio
anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani
e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali.
E a seguirla da qui, in un villaggio a tre
ore da Calcutta, la narrazione
dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è
stata – andiamo di eufemismi – parziale
e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo
dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza.
In un
articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il
caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie
che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità
assolute, prove della malafede
indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei
fatti.
E’ il 15
febbraio 2012 e la petroliera
italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto.
A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò
del Reggimento San Marco col compito di
proteggere
l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta
che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone.
Intorno alle 16:30 locali si verifica
l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata,
i marò sparano contro la St. Antony
ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian
Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio.
La St.
Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam
che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata
coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto
loro di attraccare al porto di Kochi.
La Marina
Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non
dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani.
Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini
dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda
invece le richieste delle autorità
indiane.
La notte del 15 febbraio, sui corpi delle
due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi
sepolti.
Il 19
febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa
di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in
custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force,
il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture
industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale
centro di detenzione.
Questi i fatti nudi e crudi. Da quel
momento è partita una vergognosa
campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando
un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra».
Che
Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due
motivi:
1) La
fidelizzazione dei suoi (e) lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione
acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare
l’Italia nel mondo» anche quando, sotto
contratto con armatori privati, prestano
i loro servizi a difesa di interessi privati.
Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.
Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.
2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato
il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di
cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile,
letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e
tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni.
Troppo presto per togliere l’appoggio a
Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione
provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il
rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il
tritacarne
elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la
visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi
chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i
patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di
Delhi.
Qualche esempio di strumentalizzazione?
Margherita
Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a
fare notizia offrendosi
come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per
Natale.
Ignazio
La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due
marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!).
L’escamotage, che serve a blindare i due
militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre
e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.
LA
QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”
La prima tesi portata avanti maldestramente
dalla diplomazia italiana,
puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque
internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione
dovesse essere italiana. Ma le cose
pare siano andate diversamente.
Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”.
Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India.
Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”.
Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India.
Nonostante la confusione causata dal
campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è
ufficialmente da considerare valida la
perizia indiana.
La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria.
La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria.
Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal
Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia
nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona
contigua».
Il diritto
marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si
estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la
propria giurisdizione.
A contrastare
la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata
accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte
suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner
Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica.
Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani.
Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d.
Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani.
Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d.
Non si menziona mai, in tutta la perizia,
nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno
depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano
aveva addirittura presentato il suo
lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che
fossero disponibili i risultati delle perizie indiane!
In quell’occasione i Radicali hanno
avanzato un’interrogazione
parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma
se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla,
perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?»
Il lavoro
di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni
inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale
nei confronti del cosiddetto Terzo mondo.
Se qualcuno ancora oggi ritiene che una
simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana,
cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di
energie.
UNGHIE
SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!»
Altra tesi particolarmente in voga: non
sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze,
sono stati loro.
Nel rapporto consegnato in un primo momento
dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane
(entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone
hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che
l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono
invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si
vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony.
Il 28 febbraio il governo italiano chiede
che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli
esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che
un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici
indiani.
Gli esami
confermano che a sparare
contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto
supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri
dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony.
Staffan De Mistura, sottosegretario agli
Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato
alla stampa indiana:
«La morte dei due pescatori è stato un
incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che
ciò accadesse, ma purtroppo è successo».
I più cocciuti, pur davanti all’ammissione
di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave
mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle
coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente
dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio
internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina
mercantile greca ha categoricamente
escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair.
A questo punto possiamo tranquillamente
sostenere che:
1) l’Enrica
Lexie non si trovava in acque internazionali;
2) i
due marò hanno sparato.
Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza
della Corte suprema circa la giurisdizione.
Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo
con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria
internazionale, i marò a bordo della
Enrica Lexie devono essere considerati
personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera
batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.
A livello
internazionale vige la Convention
for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation
(SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo)
nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe
dare ragione sia all’Italia sia all’India.
La sentenza della Corte Suprema di New
Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi,
dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per
tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro.
Il caso dei due marò, che dal mese di
giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese
prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo
internazionale.
IMPRECISIONI,
DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI
In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la
cronaca a macchie di leopardo di gran
parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è
persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha
glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno
contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un
altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato
le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione.
Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani
«dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle
famigerate carceri indiane.
I due militari del Reggimento San Marco, in
libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso,
in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno
passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto
di tv satellitare e cibo italiano in
tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai.
Un trattamento di lusso accordato fin
dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava
Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il
soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile:
«I due marò del Battaglione San Marco
sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo
delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House
di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine.
Secondo l’intervista rilasciata da un alto
funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri
della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con
tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio.
La diplomazia
italiana avrebbe infatti fornito
alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel
per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte
del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.»
Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di
evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione
della Chiesa. Alcune iniziative
discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto
tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due
di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane.
In primis, aver coinvolto il prelato
cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe
di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte
consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese,
nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh
Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15
febbraio.
L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori.
L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori.
Il 24
aprile, inoltre, il governo italiano
e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico
extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è
trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo».
Alle due famiglie, col consenso dell’Alta
Corte del Kerala, vanno 10 milioni di
rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le
famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando
solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa.
Raccontata dalla stampa italiana come
un’azione caritatevole, la transazione
economica è stata interpretata in
India non solo come un’implicita
ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi
il silenzio delle famiglie dei pescatori.
Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di
Delhi ha
criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo
tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano,
è inammissibile.»
Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre
durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in
poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il
non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato
ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico.
Rispondendo all’appello de Il Giornale ed
alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del
direttore Sallusti, la Ferrari ha
accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle
monoposto la bandiera della Marina
Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava:
«[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio
a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le
autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che
vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.»
La replica
seccata del Ministero degli Esteri
indiano non si fa attendere: «Utilizzare
eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura
significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.»
Pur avendo incassato il plauso del ministro
degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il
sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un
secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed
indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la
bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.»
In mezzo al tira e molla di una strategia
diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più
sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo
Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche
ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro
le sbarre» - è continuato imperterrito con toni a metà tra un
romanzo di Dickens e una sagra di paese.
Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.»
Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.»
L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani
sparse in tutto il Paese.
Ma è lecito pensare che la mossa mediatica,
ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone,
bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità
imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione
colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo
istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una
popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a
capire e pensare con la propria testa.
PARLARE
A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE
In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi
indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti.
Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando
abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto
«L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di
accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi
diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in
Italia (come la
memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con
le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci
di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto
che, a differenza di molti, noi in India
ci abitiamo davvero.
Quando tutta questa vicenda verrà
archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in
India, speriamo che sia giusto – sarà bene
ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un
confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non
strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della
quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato.
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