da:
Il Fatto Quotidiano
Dal welfare al warfare,
così si indebita lo Stato. Comprando armi
L'acquisto di armamenti
avviene in sordina. Si sfoglia un depliant e si sceglie il modello aereo o
elicottero, siluro o sistema di puntamento. Tutto è presentato con il codice
rosso dell'emergenza, il voto del Parlamento è solo consultivo
di
Daniele Martini
Dal welfare al
warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con
un’accelerazione recente, l’Italia da paese che impegna le sue forze per
la protezione sociale e il benessere (welfare), sta diventando uno Stato
che si indebita per le armi (warfare). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate
decisioniste, con un sistema che tra il serio e il faceto nell’ambiente è
chiamato il “depliant”, come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di
viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei
supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi, l’Italia
ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini,
la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di
euro all’anno, a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile
quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico.
SOLDATO
DEL FUTURO, MA QUANTO MI COSTI?
L’elenco delle spese
è impressionante. In prima fila ci sono i soliti F-35, i cacciabombardieri della
Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec, cioè il soldato robotizzato
del futuro (vedi foto). Per entrambi l’Italia ha già preso impegni e speso
quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva. Entrambi implicano
un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di euro ciascuno di spese
vive, cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare gli annessi e
connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla
sostituzione di componenti.
Per gli F-35, per
esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più
costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In
pratica con gli F-35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto
una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40
miliardi di euro. Gli Stati maggiori sostengono, però, che una quota di queste
spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro italiani, ma è
vero solo in minima parte. La Rivista italiana difesa, molto vicina agli
ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello
stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe
stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane.
Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato
ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per
essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto.
Con Forza Nec ci
sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della
“lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti, anche nel
rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari: un
tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’esercito e ai programmi
interforze. L’esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un
equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone,
necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e
quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio
della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con
Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di
quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh
101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000,
costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al
2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767
rifornitori un altro miliardo.
Per Forza Nec il
soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso,
forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa tornare
indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un
contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora
Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane: Galileo,
Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa
soldato futuro. Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i
costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco
Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è
in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa
si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come
dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90
milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il
Fatto si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di
compravendita di armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di
poche righe.
DUE
“FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE
Per sostituire
un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare e preso
in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per
l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari
dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre Finmeccanica)
fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti israeliani.
Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa oltre 800
milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto
questo mamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè
una nota generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali
ricadute produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece
decisivo per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra
il 10 per cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e
ammannito a opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si
trattasse di roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la
stessa scelta concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani:
“I clienti possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”.
IL
PARLAMENTO DICE NO ALL’ACQUISTO? SI COMPRA LO STESSO
Il Parlamento
italiano con le armi può pronunciarsi liberamente, a patto che dica sì, se dice
no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo
consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con
questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non
può fare a meno di spendere per difendersi, così come del resto è previsto
anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese
vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati
maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un
militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola,
cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose
potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato
Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte
degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’
più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante.
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calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più costosa dell’acquisto
stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In pratica con gli F-35 nei
prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una cifra che volendo
stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40 miliardi di euro. Gli Stati maggiori
sostengono, però, che una quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo
sull’industria e il lavoro italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista italiana difesa, molto vicina agli ambienti
militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello
stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe
stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane.
Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato
ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per
essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto.
Con Forza Nec ci sono i prodromi
perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della “lobby del fante”
perché il programma proceda sono molto forti, anche nel rispetto di una specie
di manuale
Cencelli delle spese militari: un tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’esercito e ai
programmi interforze. L’esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e
insegue un equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte
del leone, necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente
avanzati e quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un
occhio della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione
con Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di
quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh
101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000,
costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al
2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767
rifornitori un altro miliardo.
Per Forza Nec il soldato del futuro non
c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso, forse per precostituire le
condizioni perché anche volendo non si possa tornare indietro. Sono stati
impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un contratto del valore
di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora Finmeccanica) a cui sono
interessate anche altre aziende
italiane: Galileo, Elsag, Oto Melara,
Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa soldato futuro.
Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i costosissimi
sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco Arge). Due sono
già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è in costruzione e
per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa si affrettano a sottolineare
che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come dire che non si può fare
marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90 milioni per armare quei
sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto si è imbattuto per
caso in un altro gigantesco affare di
compravendita di
armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe.
DUE
“FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE
Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di
Mare e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per l’acquisto da Israele di due
Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi
(sempre Finmeccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei
piloti israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che
costa oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto
questo mamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè
una nota generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali
ricadute produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece
decisivo per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra
il 10 per cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e
ammannito a opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si
trattasse di roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la
stessa scelta concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani:
“I clienti possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”.
IL
PARLAMENTO DICE NO ALL’ACQUISTO? SI COMPRA LO STESSO
Il Parlamento italiano con le armi può
pronunciarsi liberamente, a patto che dica sì, se dice no, l’aereo o il
sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo consultivo. È
sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con questi criteri
abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non può fare a meno
di spendere per difendersi, così come del resto è previsto anche dalla
Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese vengono passate ai
raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati maggiori tutt’al più
d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un militare, come l’ex
capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola, cresce il rischio di
una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose potrebbero cambiare
grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato Pd), un articolo
della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte degli stati
maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’ più seria
concedendo al Parlamento un voto vincolante.
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