da: La Stampa
Tutti
i fantasmi dei Baustelle
“Un
disco con l’orchestra per rimetterci in discussione”
Quasi settantaquattro minuti di musica, sei brani strumentali, tredici canzoni.
Una addirittura, firmata da Rachele
Bastreghi e Gustav Mahler (“Abbiamo ripreso l’Adagietto della Quinta
Sinfonia, eppure è il pezzo più rock dell’album”, spiega lei). Fantasma dei Baustelle arriva nei
negozi il 29 gennaio: registrato a
Montepulciano, da cui è partita tredici anni fa l’avventura di Francesco Bianconi, Claudio Brasini e
Rachele Bastreghi, è un lavoro maturo, complesso, denso di riferimenti
colti. Per la musica italiana è una delle uscite più importanti di questo 2013
appena iniziato.
Francesco
Bianconi, ma dopo Charlie fa Surf, dopo le canzoni per Irene Grandi e Anna Oxa,
dopo il brano per Chiara che sarà presentato a Sanremo, per il sesto disco dei
Baustelle serviva davvero un’orchestra di sessanta elementi?
“Volevamo rimetterci in discussione, così
siamo partiti con l’idea di un concept album con una grande orchestra. È vero
che oggi nessuno ha voglia di ascoltare un disco che dura tanto, non c’è il
tempo, la predisposizione. Noi però scommettiamo che sia possibile anche un
approccio diverso, meditato e rilassato, come si faceva una volta: per questo
l’album è pensato come un film, con tanto di titoli iniziali e di coda, anche
se poi ovviamente finirà negli iPhone e nei lettori Mp3 alla voce pop”.
Come
si fa a chiamare ancora pop un disco che cita Ligeti e Stravinsky, autori
impegnativi anche per chi ascolta la classica?
“Sono impegnativi perché siamo assuefatti a
un ascolto banale, ma tracce della loro musica si trovano spesso nella musica
leggera o nelle colonne sonore. In Fantasma l’orchestra sinfonica è
un elemento portante e fin dall’inizio ci siamo posti il problema di come
arrangiarla. Abbiamo voluto che non fosse un ornamento, ma avesse lo stesso
rilievo che ha nella classica. Così abbiamo potuto esprimere le nostre
passioni: in Diorama c’è un intermezzo barocco, nel resto del disco
molta musica del Novecento. Volevamo sfuggire al cliché del disco sinfonico, e
crediamo di esserci riusciti: ci sono soluzioni complesse ma non per uno
snobismo fine a se stesso”.
In
realtà i Baustelle hanno sempre un che di snob, anche quando cantano in
romanesco, come in Conta’ l’Inverni…
“È uno degli ultimi testi che ho scritto.
Ho cominciato a trovare parole tronche, che sono sempre un problema perché la
scelta è molto limitata. Allora ho provato a cantare in romanesco e dopo la
prima frase il resto è nato da sé. Non ho radici romane, ma per questa storia
di amore e morte avevo un riferimento: una vecchia canzone di Edoardo de
Angelis, Lella”.
Viene
citato anche Olivier Messiaen, più per la sua vita che per la sua musica. Come
mai?
“Messiaen, arruolato nell’esercito
francese, fu catturato dai nazisti e internato in un campo di lavoro. Ma
continuò a coltivare la passione per la musica, e con un pianoforte rotto e con
l’aiuto di altri tre prigionieri musicisti dilettanti, scrisse il Quatuor
pour la Fin du Temps per clarinetto violoncello e violino. Il quindici
gennaio del 1941 suonarono quest’opera dissonante sul piazzale gelato del campo
di concentramento davanti a ufficiali ei prigionieri. Finale parla di lui
nell’istante prima di attaccare a suonare il brano, mentre pensa alla moglie a
Parigi e cerca di tranquillizzarla. Aveva una concezione personalissima del
tempo: nell’Apocalisse vedeva la fine della temporalità e l’inizio
dell’eternità”.
Una
storia difficile, non proprio pop…
“Ma a spiegarle, le cose fanno meno paura,
come le storie di fantasmi.”
Quindi
il disco ha un intento didattico?
“Nella mia esperienza di ascoltatore sono
grato ad alcuni artisti che mi hanno insegnato molto. Di una canzone non basta
il suono di una batteria, non basta che faccia ballare: il pop ha e deve avere
una funzione didattica. Sono nato nel 1973 e ho cominciato ad appassionarmi
alla musica negli anni Ottanta. E allora è successa una cosa speciale: La
voce del Padrone è andata al primo posto in classifica, un disco pieno di
cose difficili e geniali ma raccontate in una maniera accessibile. Battiato mi
ha fatto capire che è possibile”.
Lo
avete mai conosciuto?
“L’ho intervistato una volta quando ero
all’università, gli ho passato il nostro primo demo, ma è finita lì”.
Eppure
questo disco ha molto di Battiato, come i suoi album migliori è al confine tra
musica leggera e classica…
“Prima o poi ci conosceremo, ma voglio che
sia una cosa naturale, non forzata. Intanto, non posso non notare che il suo
nuovo singolo, Testamento, ha un video simile al nostro, con una bambina
morta che alla fine apre gli occhi. Sono variazioni sullo stesso tema”.
E
non è la morte, che pure dà il titolo al primo singolo: nelle 14 mila e passa
parole dell’album ricorre solo nove volte, mentre “vita” e “tempo” sono i
termini più frequenti. Lo definireste un disco positivo?
“Non è pessimista, ci siamo sforzati di
vedere la morte come è un passaggio: per chi crede in un modo migliore, per chi
non crede in un altro stato biologico. Non vogliamo caricare la morte di
simbologie negative: in altre parti del mondo non è un dramma come da noi. Le
canzoni parlano del presente, con i suoi problemi e le difficoltà, ma c’è
sempre la spinta a superarli”.
E
c’è spazio anche per la politica, con un accenno a Berlusconi e un “figlio di
troia” che appalta la Rai. Come mai proprio in Nessuno, che sembra una
canzone d’amore?
“Non ho un figlio di troia di riferimento.
Non ce l’ho nemmeno con Berlusconi, ma con la situazione politica italiana che
è sempre la stessa, dal dopoguerra a oggi”.
Si
definirebbe ancora anarchico, Bianconi?
“Tendenzialmente sì, però andrò a
votare”.
Torniamo
a Nessuno.
“È una specie di credo, una canzone d’amore
individuale e universale. Il linguaggio oscilla tra poesia e parlata comune,
tra pubblico e privato. Quando si riesce a mettere insieme queste due prospettive
scatta qualcosa di speciale, e non penso alle nostre canzoni, ma a quelle di
Bob Dylan o Leonard Cohen”.
Ha
visto Django Unchained?
“Avevo la febbre lo scorso fine settimana,
mi rifarò appena possibile”.
Nelle
atmosfere di Fantasma, come nei vostri dischi precedenti, si sente il
richiamo alle colonne sonore degli anni Settanta, e anche Tarantino si ispira a
quel periodo. Non avete paura di far parte di una moda?
“Per una curiosa coincidenza, l’Orizzonte
degli Eventi all’inizio si chiamava Thursday Django. Abbiamo chiesto al
nostro editore di far avere la demo a Tarantino, poi non abbiamo saputo più
nulla”.
E
invece nella colonna sonora canta Elisa…
“Sono contento, vuol dire che avevamo avuto
l’intuizione giusta, era il caso di provare con un brano in italiano. Tuttavia
il nostro riferimento ai Settanta è più complesso. Da amante dei film di
allora, posso dire che alcuni erano brutti davvero, ma anche in quelli la
componente musicale era sempre interessante. Non c’era solo Morricone: sulla
musica si lavorava tanto, da veri artigiani. In questo disco abbiamo cercato di
recuperare quell’attenzione e quella cura per i dettagli”.
Il
tour parte da Bari il 19 Febbraio. Dal vivo come suonano i nuovi Baustelle?
“È un tour in due tempi: nelle prime cinque
date ci accompagnerà una grande orchestra, poi continueremo nei teatri. Senza
orchestra, ma con una formazione allargata che comprenderà una sezione fiati.
Daremo molto spazio all’ultimo disco, naturalmente, e riarrangeremo anche cose
vecchie, come Charlie fa Surf”.
Cos’è
il fantasma del titolo?
“Sintetizza la nostra idea di tempo: è il
passato che appare nel presente. Ma oggi anche il futuro è un fantasma, non ha
contorni definiti che avrebbe avuto 25 anni fa. La parola fantasma evoca
infinite suggestioni, da Edgar Allan Poe al Canto di Natale di
Dickens, passando per la grafica della copertina, che si rifà ai film horror di
quarant’anni fa. Cercheremo di ripercorrerle in una serie radiofonica, Storie
di Fantasmi, che è partita lunedì e andrà avanti per dieci puntate su Radio
Due. Ma il solo fantasma di cui avere paura è dentro di noi”.
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