martedì 22 gennaio 2013

Sistema audiovisivo italiano: lo sviluppo fattibile e necessario, assente nelle “agende” della politica


Ottimo articolo



da: la Repubblica

Una nuova agenda per le tv più tecnologie e export nel futuro
Le frequenze andranno alle Telecom e l’asta è anacronistica. Bisogna ridisegnare il settore guardando al web e creare un vero distretto italiano dell’audiovisivo
di Pier Luigi Celli

La fine della legislatura coincide con una macroscopica crisi del sistema televisivo italiano, che non è solo difficoltà di bilancio dei principali gruppi; ma è anche necessità di riallineare il prodotto ai bisogni di cultura, informazione e identità della società italiana.
La necessità di ripensare lo sviluppo dell’audiovisivo italiano, sul piano industriale, tecnologico ed editoriale, s’impone perciò come problema dell’immediato futuro. Stupisce non trovarlo nelle “agende” di questa campagna elettorale. Eppure, nell’arco temporale della legislatura 2013-2018 si affolleranno nodi strutturali, che richiederanno una visione d’insieme da parte del legislatore, delle autorità regolamentari e delle stesse imprese. Proviamo ad elencarne alcuni.
1. Nel medio periodo, ci sarà un ulteriore trasferimento di frequenze dalla televisione alla telefonia mobile. Questo è razionale, dal punto di vista del sistema- paese, perché si valorizza una risorsa scarsa. Le televisioni, legittimamente, cercheranno di opporsi a questa prospettiva, ma il trend di lungo periodo è ormai chiaro. Di necessità, l’attuale pianificazione delle frequenze dovrà essere largamente rivista, per tener conto della riduzione delle risorse a disposizione. Il tema della razionalizzazione e riorganizzazione del sistema
televisivo sarà perciò inevitabile. L’uso inefficiente di una risorsa scarsa non sarà più possibile; e per primo si porrà il problema della razionalizzazione e del consolidamento dell’emittenza locale. Soprattutto, si dovrà pensare ad un sistema distributivo meno arcaico e più europeo, fondato sul mix tra reti terrestri, satellite e banda larga. Forse è questa la strada per venire a capo di una questione che da tempo si trascina e che potrebbe essere dirompente per qualsiasi governo: la procedura d’infrazione avviata a suo tempo dall’Unione europea per difetto di pluralismo e tuttora pendente in attesa che l’asta per le frequenze del “dividend” – dai tempi ormai più che incerti - favorisca l’ingresso di nuovi soggetti. Se oggi infatti, in un quadro di non-crescita dell’economia e di contrazione dei fatturati del sistema televisivo è improbabile l’arrivo di nuovi soggetti (e i problemi di vendita de La 7 lo dimostrano), un futuro contesto di rinnovato sviluppo del settore, di mutato mix delle reti distributive e di razionalizzazione dell’etere potrebbe aprire davvero la strada a maggiore concorrenza. Un nuovo governo, che con decisione impostasse una politica di sviluppo del settore audiovisivo e avviasse un’ordinata transizione al futuro assetto delle frequenze, potrebbe concordare con l’Unione Europea la chiusura della procedura d’infrazione.
2. Lo sviluppo ha bisogno di regole. Nei prossimi cinque anni, la tecnologia e la globalizzazione incideranno a fondo sulla filiera industriale dell’audiovisivo, con l’irruzione sempre più pesante dei player globali. Al legislatore e alle autorità regolamentari si porrà il compito di varare una normativa in grado di governare questi sconvolgimenti, preservando la capacità produttiva del sistema audiovisivo italiano (ma il tema è europeo, naturalmente). I temi peraltro sono noti: revisione del diritto d’autore per adattarlo al contesto multimediale; sostegno ai sistemi tecnologici aperti e pro-competitivi; e – non ultimo per importanza – regime fiscale per soggetti come Google, in modo da non consentire distorsione della concorrenza.
3. Ma le regole non bastano. Occorre un vero e proprio sistema nazionale dell’innovazione per l’audiovisivo. Il modello è quello dei distretti industriali, che va declinato in termini di “distretto Italia”. È questa la chiave per una politica industriale dal basso, fondata in primo luogo sulla capacità delle imprese di creare (anche in modo cooperativo, in una logica di sussidiarietà) un ambiente favorevole alla concorrenza, all’innovazione e allo sviluppo: reti di formazione professionale, strumenti specializzati di venture capital e altri canali di finanziamento per le start up, creazione di standard tecnici che garantiscano un eco-sistema tecnologico aperto. In tempi di spending review e di scarsità di risorse pubbliche e private, la logica del distretto fa camminare la politica industriale principalmente sulle gambe delle aziende senza incidere sulle risorse pubbliche, e la dimensione cooperativa riduce i costi per le imprese e abbassa la soglia d’ingresso per le start up.
4. La “logica di distretto” serve anche per far fronte ad una criticità divenuta negli ultimi anni estremamente seria. È infatti urgente colmare il gap tra export e importazioni di audiovisivo, perché in un quadro di mercato interno stagnante (tanto sul lato della pubblicità quanto su quello degli introiti da pay), il deficit della bilancia commerciale dell’audiovisivo fa venir meno risorse essenziali, è un fattore di debolezza strutturale dell’industria italiana che ne frena gli investimenti e l’innovazione. Per altro, da un punto di vista più generale, se si varasse una strategia di sistema-paese per promuovere l’esportazione di audiovisivo si avrebbe una ricaduta positiva anche in termini di promozione della cultura e dell’immagine dell’Italia.
5. Tutti questi elementi hanno senso e coerenza se al centro del progetto viene collocato il prodotto: ossia la capacità del sistema audiovisivo di generare immaginario, cultura e identità. La tenuta e la crescita dell’industria audiovisiva passa per la capacità di realizzare un prodotto che sia competitivo perché in grado di interpretare e dare voce allo specifico bisogno di informazione, di immaginario, di conoscenze e di identità della società italiana. Oggi il paese è culturalmente più ricco, più articolato e più vitale della sua industria audiovisiva. Colmare questo gap significa rimettere in moto energie intellettuali e produttive, preservare e anzi sviluppare l’accumulo di professionalità e competenze, stimolare la nascita di nuove avventure editoriali e rimotivare le macchine produttive esistenti: un nuovo slancio che deve nascere dall’interno dell’industria culturale, sulla base di condizioni di competitività internazionale e di ambiente interno favorevole all’innovazione, la cui creazione richiede il complesso di strategie e di politiche prima accennate. In questa “ripartenza” un ruolo determinante è naturalmente quello del servizio pubblico: e la riforma della Rai non potrà che essere ai primi posti nell’agenda dei prossimi anni, dopo una legislatura che, sotto questo profilo, è stata un’occasione perduta.

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