Tratto da "Monte
dei Paschi: una banca da brivido"
Il Monte dei Paschi rappresenta l’esempio
più eclatante della condotta disastrosa delle banche italiane da parte di una
classe di dirigenti privi di ogni senso del pudore.
Banca storica governata per decenni dal Pci e poi dal Pd senese, il Monte ha cominciato a deragliare alla metà degli anni ’90, quando l’acquisto della Banca del Salento portò
con sé un nuovo D.G. (Vincenzo De Bustis) che ha legato il suo nome ad alcune pratiche commerciali fraudolente tipiche di
una finanza che ha smarrito ogni senso etico. Subito dopo sono saliti sulla
tolda di comando Mancini (un amministratore
di ASL assurto a presidente della Fondazione) e soprattutto Mussari (un avvocato di provincia
improvvisatosi banchiere).
La gestione
degli incapaci ha portato alla rovina, concretizzatasi con l’acquisto per 9 miliardi di euro della Banca
Antonveneta, al culmine della bolla del 2007. Quella scelta fu rovinosa: il valore della banca acquisita è crollato nel tempo del 95%, ma i debiti e gli aumenti di
capitale necessari alla ricapitalizzazione del Monte sono rimasti, portando al
sostanziale azzeramento del patrimonio. Il Monte è stato ricapitalizzato di recente
con 3.9 miliardi di euro di Monti-bonds (UE
permettendo), il doppio circa di quanto vale la banca in borsa.
Mentre Mussari (inquisito in varie
inchieste) è stato premiato con la presidenza Abi, al vertice sono ora andati
due personaggi ben noti: Alessandro
Profumo alla presidenza e Fabrizio Viola
alla direzione generale.
La ricetta
per uscire dalla crisi: tagliare i costi del personale. Dopo quasi
un anno
di tiramolla inconcludenti, scioperi e mobilitazioni, si è arrivatia metà
dicembre ad un pessimo accordo, siglato dai soliti sindacati strapuntino (Fabi, Fiba-Cisl, Uilca, Ugl, Sinfub) con l’eccezione
della Fisac-Cgil, Dircredito e Falcri sul secondo tavolo. Adesso i lavoratori
avranno la possibilità di esprimersi in assemblea?
I contenuti dell’accordo sono terrificanti
e purtroppo prevedibili, viste le premesse, che annoveravano l’intenzione
dell’azienda di esternalizzare 4600
lavoratori e la disdetta di quasi
tutti gli accordi integrativi aziendali. Per elencare solo i punti più
eclatanti:
- esternalizzazione di 1.110 lavoratori senza alcuna reale tutela occupazionale. Infatti
gli accordi analoghi prevedono di solito clausole scritte, accettate sia dal
venditore che dal compratore (che si impegna a rispettare i diritti pregressi),
mentre in questo caso addirittura non esiste ancora un acquirente certo, perché
le 3-4 cordate iniziali sono evaporate;
- uscita di 1.000 lavoratori entro il 31/12/2017 tramite il Fondo, di fatto
obbligatorio e finanziato interamente dai lavoratori con il risparmio di costi,
senza alcuna garanzia in caso di
modifiche legislative al sistema previdenziale;
- drastico ridimensionamento delle partite economiche
e normative del C.I.A. A titolo di esempio vengono abolite molte maggiorazioni economiche rispetto al CCNL, scatti di
anzianità aggiuntivi, anzianità convenzionali, indennità legate ai trasferimenti, alla cassa, alla sostituzione
direttiva; vengono soppresse le norme
sulla sicurezza, la ricerca del consenso per i trasferimenti, l’attuale sistema
degli inquadramenti aziendali, le norme su formazione, percorsi professionali,
assunzioni e sul sistema incentivante, che di fatto viene ad essere gestito a
totale discrezione aziendale,
- introduzione dell’obbligo di smaltire
ferie, permessi, riduzioni d’orario e banca ore nell’anno di competenza, pena
la perdita senza pagamento;
- divieto di segnalare straordinario per prestazioni
inferiori all’ora;
- sospensione dell’attività lavorativa di 6
giorni all’anno per 3 anni per tutti, con la possibilità di scalare dal totale
fino a due giorni di ferie arretrate all’anno.
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