giovedì 24 gennaio 2013

Bancarotta 2013: Monte dei Paschi di Siena




Tratto da "Monte dei Paschi: una banca da brivido"


Il Monte dei Paschi rappresenta l’esempio più eclatante della condotta disastrosa delle banche italiane da parte di una classe di dirigenti privi di ogni senso del pudore.
Banca storica governata per decenni dal Pci e poi dal Pd senese, il Monte ha cominciato a deragliare alla metà degli anni ’90, quando l’acquisto della Banca del Salento portò con sé un nuovo D.G. (Vincenzo De Bustis) che ha legato il suo nome ad alcune pratiche commerciali fraudolente tipiche di una finanza che ha smarrito ogni senso etico. Subito dopo sono saliti sulla tolda di comando Mancini (un amministratore di ASL assurto a presidente della Fondazione) e soprattutto Mussari (un avvocato di provincia improvvisatosi banchiere).
La gestione degli incapaci ha portato alla rovina, concretizzatasi con l’acquisto per 9 miliardi di euro della Banca Antonveneta, al culmine della bolla del 2007. Quella scelta fu rovinosa: il valore della banca acquisita è crollato nel tempo del 95%, ma i debiti e gli aumenti di capitale necessari alla ricapitalizzazione del Monte sono rimasti, portando al sostanziale azzeramento del patrimonio. Il Monte è stato ricapitalizzato di recente con 3.9 miliardi di euro di Monti-bonds (UE permettendo), il doppio circa di quanto vale la banca in borsa.
Mentre Mussari (inquisito in varie inchieste) è stato premiato con la presidenza Abi, al vertice sono ora andati due personaggi ben noti: Alessandro Profumo alla presidenza e Fabrizio Viola alla direzione generale.
La ricetta per uscire dalla crisi: tagliare i costi del personale. Dopo quasi
un anno di tiramolla inconcludenti, scioperi e mobilitazioni, si è arrivatia metà dicembre ad un pessimo accordo, siglato dai soliti sindacati strapuntino (Fabi, Fiba-Cisl, Uilca, Ugl, Sinfub) con l’eccezione della Fisac-Cgil, Dircredito e Falcri sul secondo tavolo. Adesso i lavoratori avranno la possibilità di esprimersi in assemblea?
I contenuti dell’accordo sono terrificanti e purtroppo prevedibili, viste le premesse, che annoveravano l’intenzione dell’azienda di esternalizzare 4600 lavoratori e la disdetta di quasi tutti gli accordi integrativi aziendali. Per elencare solo i punti più eclatanti:
- esternalizzazione di 1.110 lavoratori senza alcuna reale tutela occupazionale. Infatti gli accordi analoghi prevedono di solito clausole scritte, accettate sia dal venditore che dal compratore (che si impegna a rispettare i diritti pregressi), mentre in questo caso addirittura non esiste ancora un acquirente certo, perché le 3-4 cordate iniziali sono evaporate;
- uscita di 1.000 lavoratori entro il 31/12/2017 tramite il Fondo, di fatto obbligatorio e finanziato interamente dai lavoratori con il risparmio di costi, senza alcuna garanzia in caso di modifiche legislative al sistema previdenziale;
- drastico ridimensionamento delle partite economiche e normative del C.I.A. A titolo di esempio vengono abolite molte maggiorazioni economiche rispetto al CCNL, scatti di anzianità aggiuntivi, anzianità convenzionali, indennità legate ai trasferimenti, alla cassa, alla sostituzione direttiva; vengono soppresse le norme sulla sicurezza, la ricerca del consenso per i trasferimenti, l’attuale sistema degli inquadramenti aziendali, le norme su formazione, percorsi professionali, assunzioni e sul sistema incentivante, che di fatto viene ad essere gestito a totale discrezione aziendale,
- introduzione dell’obbligo di smaltire ferie, permessi, riduzioni d’orario e banca ore nell’anno di competenza, pena la perdita senza pagamento;
- divieto di segnalare straordinario per prestazioni inferiori all’ora;
- sospensione dell’attività lavorativa di 6 giorni all’anno per 3 anni per tutti, con la possibilità di scalare dal totale fino a due giorni di ferie arretrate all’anno.

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