da: La Stampa
Una
politica per creare lavoro
di Stefano
Lepri
Per limitare il numero di licenziamenti,
per creare duraturi posti di lavoro, servirebbe proprio quello che nelle casse
dello Stato italiano manca: un sacco di soldi. Nemmeno ci sono distanze enormi,
tra le ricette che i partiti propongono in campagna elettorale. Il guaio è che
al momento non tornano i conti perfino per coprire la pura emergenza, ossia la
cassa integrazione.
Perché le imprese possano vendere di più,
occorre recuperare competitività: abbassare la tassazione sul lavoro (solo se a tempo indeterminato) che
utilizzano. Se si vuole che sul mercato nazionale non manchino i compratori,
occorrono meno tasse sui redditi più
bassi, più danneggiati dalla crisi. Piuttosto che tenere in vita aziende
fuori mercato, occorre dare una decente
indennità di disoccupazione a chi perde l’impiego e sgombrare la strada a chi vuole fondare aziende nuove. Vantaggi aggiuntivi per chi assume donne possono allargare le forze di
lavoro. Posti in più possono essere creati accelerando opere pubbliche utili.
A seconda degli schieramenti politici o dei
gusti, può apparire più urgente l’uno o l’altro di questi punti.
La vera sfida è come arrivare a mettere
insieme le risorse per realizzarne almeno qualcuno, e come creare il clima di
fiducia nell’Italia che permetta di usare
al meglio il denaro che c’è. Anche per questa via si torna a quello che oggi è il problema primo, uno Stato che non funziona. Ripulire la politica, rifare da capo l’amministrazione, tagliare le spese, ne sono gli aspetti indistricabili: nessuno dei tre può essere realizzato da solo.
al meglio il denaro che c’è. Anche per questa via si torna a quello che oggi è il problema primo, uno Stato che non funziona. Ripulire la politica, rifare da capo l’amministrazione, tagliare le spese, ne sono gli aspetti indistricabili: nessuno dei tre può essere realizzato da solo.
Bisogna dare l’idea che in Italia vale la
pena di studiare e di lavorare, e che si ottengono risultati facendolo bene.
Questo oggi manca, da ogni angolatura possibile: non lo vedono i giovani, e
infatti i migliori tra loro vanno all’estero; non lo vedono nemmeno gli
investitori stranieri, e infatti non vengono. Qui probabilmente vanno cercate
le ragioni profonde del mistero che i tecnici dell’economia stentano a
spiegare: come mai, caso quasi unico, il sistema economico italiano nell’ultimo
decennio abbia perso in efficienza (produttività) mentre grandi innovazioni
cambiavano il mondo.
Sarà duro, durissimo, riuscirci. Troppe forze organizzate della nostra società prosperano nel mantenere le cose come
stanno; mentre coloro che ne soffrono sono disorganizzati o poco rappresentati.
Una prova significativa l’abbiamo appena avuta, con le difficoltà della «Scelta
civica» di Mario Monti a precisare una proposta per il mercato del
lavoro.
Non è probabilmente questo il momento giusto, come osservava qualche
giorno fa su questo giornale Elsa
Fornero: proprio perché prevale l’urgenza dei posti da non perdere oppure
da creare. Però è chiaro che ristagna un Paese dove il grosso dei giovani ha
davanti solo la prospettiva di un lavoro precario che sottoutilizza il loro
studio, e quei pochi che un impiego solido lo trovano sono, a parità di
qualifica, pagati meno rispetto ai coetanei di vent’anni fa.
Ma a questo mercato del lavoro «duale» si sono adattati in tanti, non solo i sindacati
che difendono gli anziani con il posto fisso, anche tantissime imprese, mentre all’interno delle
famiglie si compensano i divari e si tappano le falle. La paura di cambiare si
rivela diffusa ovunque.
E’ inevitabile che in una crisi mondiale, a
cui l’Italia per giunta è arrivata impreparata e carica di illusioni, alcuni
posti di lavoro non possano essere salvati. Meglio interrogarsi su quali sono
le idee, le condizioni materiali, le persone - soprattutto giovani, donne,
immigrati - da cui possono nascere posti di lavoro nuovi.
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