martedì 22 gennaio 2013

Stefano Lepri: "Una politica per creare lavoro"


da: La Stampa

Una politica per creare lavoro
di Stefano Lepri

Per limitare il numero di licenziamenti, per creare duraturi posti di lavoro, servirebbe proprio quello che nelle casse dello Stato italiano manca: un sacco di soldi. Nemmeno ci sono distanze enormi, tra le ricette che i partiti propongono in campagna elettorale. Il guaio è che al momento non tornano i conti perfino per coprire la pura emergenza, ossia la cassa integrazione.  

Perché le imprese possano vendere di più, occorre recuperare competitività: abbassare la tassazione sul lavoro (solo se a tempo indeterminato) che utilizzano. Se si vuole che sul mercato nazionale non manchino i compratori, occorrono meno tasse sui redditi più bassi, più danneggiati dalla crisi. Piuttosto che tenere in vita aziende fuori mercato, occorre dare una decente indennità di disoccupazione a chi perde l’impiego e sgombrare la strada a chi vuole fondare aziende nuove. Vantaggi aggiuntivi per chi assume donne possono allargare le forze di lavoro. Posti in più possono essere creati accelerando opere pubbliche utili. 

A seconda degli schieramenti politici o dei gusti, può apparire più urgente l’uno o l’altro di questi punti.  
La vera sfida è come arrivare a mettere insieme le risorse per realizzarne almeno qualcuno, e come creare il clima di fiducia nell’Italia che permetta di usare
al meglio il denaro che c’è. Anche per questa via si torna a quello che oggi è il problema primo, uno Stato che non funziona. Ripulire la politica, rifare da capo l’amministrazione, tagliare le spese, ne sono gli aspetti indistricabili: nessuno dei tre può essere realizzato da solo.  

Bisogna dare l’idea che in Italia vale la pena di studiare e di lavorare, e che si ottengono risultati facendolo bene. Questo oggi manca, da ogni angolatura possibile: non lo vedono i giovani, e infatti i migliori tra loro vanno all’estero; non lo vedono nemmeno gli investitori stranieri, e infatti non vengono. Qui probabilmente vanno cercate le ragioni profonde del mistero che i tecnici dell’economia stentano a spiegare: come mai, caso quasi unico, il sistema economico italiano nell’ultimo decennio abbia perso in efficienza (produttività) mentre grandi innovazioni cambiavano il mondo. 

Sarà duro, durissimo, riuscirci. Troppe forze organizzate della nostra società prosperano nel mantenere le cose come stanno; mentre coloro che ne soffrono sono disorganizzati o poco rappresentati. Una prova significativa l’abbiamo appena avuta, con le difficoltà della «Scelta civica» di Mario Monti a precisare una proposta per il mercato del lavoro. 

Non è probabilmente questo il momento giusto, come osservava qualche giorno fa su questo giornale Elsa Fornero: proprio perché prevale l’urgenza dei posti da non perdere oppure da creare. Però è chiaro che ristagna un Paese dove il grosso dei giovani ha davanti solo la prospettiva di un lavoro precario che sottoutilizza il loro studio, e quei pochi che un impiego solido lo trovano sono, a parità di qualifica, pagati meno rispetto ai coetanei di vent’anni fa. 

Ma a questo mercato del lavoro «duale» si sono adattati in tanti, non solo i sindacati che difendono gli anziani con il posto fisso, anche tantissime imprese, mentre all’interno delle famiglie si compensano i divari e si tappano le falle. La paura di cambiare si rivela diffusa ovunque.  

E’ inevitabile che in una crisi mondiale, a cui l’Italia per giunta è arrivata impreparata e carica di illusioni, alcuni posti di lavoro non possano essere salvati. Meglio interrogarsi su quali sono le idee, le condizioni materiali, le persone - soprattutto giovani, donne, immigrati - da cui possono nascere posti di lavoro nuovi.

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