da: la
Repubblica
La Banca
d’Italia ha certificato ciò che è noto a tutti gli italiani, ma non trova
riscontro nella campagna elettorale. Mentre migliorano le condizioni sui mercati finanziari e si riduce lo spread, la spirale recessiva è tutt’altro che
interrotta.
Ci avviamo a superare rapidamente i tre milioni di disoccupati e il 2013 sarà un altro anno col segno meno
davanti all’andamento del pil. Due pesanti recessioni di fila hanno almeno
fatto salire l’attenzione degli italiani verso i problemi della crescita: i
sondaggi ci dicono che 4 nostri connazionali su 10 si attendono dal governo che
verrà, quale che sia il suo colore politico, si occuperà prioritariamente della
crescita. Purtroppo questa più che legittima aspettativa non trova risposte nei
programmi dei partiti e nel confronto pubblico. Non c’è un’ idea nuova che sia
una. Anche la demagogia si ripete: dall’abolizione del-l’Ici nel 2006, siamo
passati all’abolizione dell’Imu nel 2013. Come se questa fosse una delle tante
campagne elettorali e non invece quella di un Paese che deve tornare a crescere
per sopravvivere. Bene ricordare che se fossimo cresciuti agli stessi ritmi
degli altri paesi dell’area Euro dal 2000 in poi, il nostro debito pubblico
sarebbe oggi inferiore al reddito nazionale anziché avere raggiunto il 125 per
cento del pil.
Il rasserenamento nel mercato dei titoli di
Stato, il calo dello spread, ci permette comunque di affrontare con qualche
grado di libertà in più il maggiore ostacolo alla ripresa: il problema dell’accesso al credito da parte delle imprese. Una delle ragioni per cui le
crisi finanziarie durano più a lungo di altre recessioni è che nuove
iniziative
imprenditoriali che potrebbero approfittare di costi più bassi non riescono a
trovare i finanziamenti di cui hanno bisogno per decollare. La stretta
creditizia è, in effetti, molto forte. Il credito alle imprese è calato nel 2012 del 5%. Si tratta di circa 40 miliardi,
potenziali investimenti, in meno. Certo, parte
di questa riduzione è attribuibile alla domanda delle imprese e non all’offerta da parte degli istituti di
credito. Alcune aziende possono avere ritardato piani di espansione in
attesa di tempi migliori. Ma diversi fatti ci fanno pensare che una parte
significativa di questo calo sia legata a un vero e proprio credit crunch. Le
indagini della Bce sulle piccole e medie imprese segnalano un drastico
peggioramento delle condizioni di accesso al credito in Italia, al contrario di
quanto avviene in altri paesi dell’Euro nella seconda parte del 2012. E
l’indagine Sole24ore Banca d’Italia di dicembre documenta come le imprese
percepiscano un netto peggioramento delle condizioni di credito.Un modo per cominciare ad alleggerire la crisi di liquidità di molte imprese consiste nel ridurre i debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti dei fornitori. Speravamo che il Governo Monti, giovandosi delle competenze del Ministro Passera, avrebbe risolto il problema. Invece ha solo promesso di saldarli tutti entro due anni, iniziando a farlo già nel 2012. Purtroppo i primi pagamenti avverranno solo nel 2013 e saranno una goccia nel mare: un miliardo e 700 milioni su una stima (di Banca d’Italia) di oltre 70 miliardi di debiti commerciali. Continuano a crescere (più 8 per cento nel 2011) perché sono spesso il portato dei tagli di carta alla spesa pubblica operatati in questi anni. Un’amministrazione che ha già impegnato delle risorse, iscrivendole a bilancio, si trova di colpo con un vincolo di spesa più stringente. A quel punto non paga i fornitori anche se la spesa è già stata iscritta in bilancio. Una seconda fonte, rilevante soprattutto nella sanità (dove si concentrano circa due terzi dei debiti commerciali), sono le spese fuori bilancio, impegni presi dalla PA senza copertura, per somme superiori agli stanziamenti del bilancio di competenza. In entrambi i casi, si tratta di somme non registrate nelle statistiche sul debito pubblico. Nel primo caso perché le passività commerciali non rientrano nella definizione di debito pubblico; nel secondo caso perché si tratta di transazioni mai registrate in bilancio. Quindi il riconoscimento da parte della PA di questi debiti porterebbe inevitabilmente ad un incremento del rapporto debito/pil che, nei giorni dello spread a 500 punti base certamente non era molto auspicabile, anche se il fenomeno è noto a chi opera sui mercati. Oggi, invece, ci sono le condizioni per superare questa ipocrisia e certificare una parte consistente del debito della PA verso i fornitori e cominciare a saldarlo, magari mediante conferimenti di titoli di stato alle imprese creditrici. Grazie al recepimento di una direttiva europea che impone tempi massimi nel saldare i debiti della PA verso le imprese, non è più possibile per l’amministrazione pubblica compensare questi pagamenti con l’allungamento dei pagamenti sui nuovi impegni di spesa.
Le misure di certificazione del debito da
parte degli enti decentrati previste sin qui sono solo un primo modestissimo
passo verso la risoluzione del problema. La certificazione non basta a dare
liquidità alle imprese quando le banche,
come si è visto, stanno tagliando
gli impieghi e la stessa Cassa
Depositi e Prestiti impone dei limiti molto stringenti nel concedere
prestiti ad imprese con crediti certificati nei confronti della PA. Inoltre la
certificazione andrebbe centralizzata per evitare che proceda con tempi
biblici: a quanto pare le regioni che
hanno accumulato maggiori debiti,
essendo spesso le stesse che sono sotto amministrazione
controllata per avere sforato i vincoli del Patto di stabilità interno, hanno previsto procedure di certificazione
ancora più lente e macchinose di quelle previste per le altre regioni. Perché
il riconoscimento dei debiti diventi fattore di sviluppo bisogna invece
procedere in fretta e con misure più incisive, quali appunto il pagamento in
titoli di stato. Fondamentale che mentre si riconoscono questi debiti, si
dimostri una chiara volontà e capacità di ridurre il rapporto fra spesa
pubblica e reddito nazionale. I tagli
lineari, indiscriminati operati nelle ultime
due legislature hanno ridotto il disavanzo solo sulla carta, lasciandoci in
eredità un debito occulto che oggi
grava come un macigno sulle imprese. I tagli
d’ora in poi dovranno essere tagli veri, basati su piani industriali (nel caso
dei Ministeri) o di incentivi per amministrazioni decentrate. Solo in
questo modo, si potrà sperare che il problema non torni a porsi da qui a
qualche anno. Per questo le due operazioni vanno svolte di pari passo: onorando
i debiti della PA nei confronti delle imprese e mostrando di essere capaci di
varare misure vere di contenimento della spesa, si darebbe il giusto segnale ai
mercati. Vero che riconosceremmo che il nostro debito (non necessariamente il
disavanzo!) è più alto di quanto stabilito dalle statistiche ufficiali, ma
questo lo si sapeva già e si sono poste le premesse per bloccare, d’ora in poi,
l’accumulazione di debito commerciale, rendendo più veritiere le statistiche
sul nostro debito pubblico.
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