Il “grillologo” che quando è dalla Gruber appare
modesto (da Paragone, altro “stile” e altre mosse facciali), in attesa di
tornare nel terzo ramo del Parlamento (quello dei morti viventi): ‘Porta a
Porta’, scrive questo articolo. Ironico. Quindi, lo riporto..
Ah…a un certo punto - con la solita “benevolenza”
che riserva ai grillini mentre se identici atteggiamenti fossero praticati da
altri li colpirebbe con sarcasmo,scrive:”i grillini che imperversano in Rete, incazzosi e troppo spesso
sprovvisti di (auto)ironia”.
Per quanto mi riguarda, direi: incazzosi, privi
di ironia, di autoironia e...qualche cazzone.
Sì. Qualche cazzone c’è. Come in ogni
movimento che si rispetti. Come in ogni club web che si rispetti. Che sia dedicato
alla politica, al gossip o a un talent show.
E…chissà se Scanzi ha sentito Alfonso
Bonafede dalla Gruber. Uno che non dovrebbe parlare neppure sotto tortura…
da: Il Fatto Quotidiano
Grillini
e piddini, mondi (e linguaggi) opposti
“Dobbiamo recuperare lo scollamento tra
politica e paese”. Così parlò Alessandra
Moretti, professione “giovane
apparente”.
La direzione
Pd è stata trasmessa in streaming,
per mostrarsi gggiovani, ma le parole erano ancora quelle da “grigi compagni del Pci” (cantava Gaber).
Burocratese, lessico bolso, carisma ipotetico. La zuppa del Bersani.
Un nulla
pensoso, saturo di quasi-sapienza e pseudo-autocritica. Gli happening della
“sinistra” italiana, ancor più dopo una sconfitta (cioè sempre), hanno il gusto
agrodolce dell’autoanalisi. Dell’autoflagellazione. Ha riverberato il cliché
anche Zoro, nella prima puntata di Gazebo: si piange, ci si interroga, ma alla
fine ci si autoassolve. Il sottotesto è sempre: “Sì, abbiamo non-vinto, ma solo
perché il popolo non ha capito”. Interventi a grappolo e la sensazione eterna
che il politburo continui a vivere su Marte. “Conosciamo bene il paese”,
ripeteva la Finocchiaro (forse, ma quel paese non è l’Italia). I migliori? Emiliano,
Civati. Figure di nicchia, diverse e dunque eretiche. Se la comunicazione è un’autostrada, il Pd la affronta guidando con pigra baldanza una Duna smarmittata (color
cacchina).
Spinge il pedale, accelerando per restare
fermo. In Rete rimbalza ancora lo spot elettorale (sic) in cui una ventina di
martiri, a metà tra la danza maori e un waka waka per artritici, scandisce il
mantra: “Lo smacchiamo, lo smacchiamo!”. La grinta è
quella dei panda che dormono, la sfiga che ha portato paragonabile a un
esercito di Cassandra efferate. A fine
filmato parte We Will Rock You (poveri
Queen). Poi, in chiusura, le parole guerreggianti di Bersani dal pulpito.
La trovata – by Youdem e Chiara Geloni, che stanno al Pd come Lippi all’Inter –
non era piaciuta a Nanni Moretti, che aveva comunque presenziato alla
“festa” finale. Dove? In un teatro. La piazza
era roba da populisti: il centrosinistra
– invece – si riuniva a teatro,
ostaggio di una comunicazione autoreferenziale che ne conclama il distacco (“scollamento”,
direbbe la Moretti) con la realtà. Anche due giorni fa il linguaggio era
polveroso, stantio. Un grammofono rigato nell’era dell’iPod: un calesse mentre
gli altri sognano astronavi. Enrico Letta elettrizzava la folla col brio di un
fermo immagine di Kiarostami. Bersani – lo smacchiatore ipotetico – agonizzava
tra “Sentiero stretto”, “diradare la nebbia”, e “sparare a palle incatenate”
(“palle incatenate” non si sentiva dai tempi della conferenza di Yalta). Fino
alla catarsi finale in latino: “De hoc satis” (“di questo basta”).
L’anzitempo
antico Orfini arringava i fedelissimi (se
stesso) con voce sottratta a Sabina Guzzanti mentre imita D’Alema. Quel D’Alema che, con supponente
dovizia, spiegava la crisi della sinistra (cioè si raccontava). Per poi citare
Gramsci, che è un po’ come se la Binetti citasse Moana: “La paura dei
compromessi è una manifestazione di subalternità culturale” (e il desiderio di
un altro inciucio è una manifestazione di perversioni estreme). Ancora la
Moretti, qualche sera fa a Porta a Porta, ripeteva: “Mi sento molto vicina
ai giovani del Movimento 5 Stelle”. Forse lei sì, ma loro mica tanto. La frattura tra pidini e grillini è netta.
Il Pd è apparato, il M5S istinto. La distinzione non è qualitativa, ma
oggettiva. Il M5S è un alieno anche nel linguaggio. Una supernova a tre facce.
Grillo parla alla pancia e al cuore, un colpo a Gargamella e uno ai sogni, qua
e là inciampando in immagini prebelliche (“I capogruppi sono titolati a
parlare”: roba che neanche Breznev).
Poi ci sono i grillini che imperversano in
Rete, incazzosi e troppo spesso
sprovvisti di (auto)ironia. E infine gli eletti, deputati e senatori,
consiglieri e assessori. Non somigliano né a Grillo-Casaleggio, né alla frangia
verbalmente estremista: teneri e candidi, passionali e ingenui (pure troppo: a Otto
e Mezzo, il neodeputato Bonafede è parso assai vago).
Più chierichetti che pasdaran. È la
normalità al potere, il cittadino über alles , il parla come mangi (e a volte
mangiano vegano). “Mi chiamo Pino, faccio il sommelier e vorrei occuparmi di
Agricoltura”. Una semplificazione forse caricaturale (infatti li hanno
massacrati, da Crozza a Twitter), che però sottolinea una cesura netta anche
nella comunicazione. Il centrosinistra è un Commodore 64 che nessuno vuol
potenziare, il M5S un iPad evoluto che non tutti sanno usare (il fascismo
buono, i microchip: ma de che?). Mondi, facce e lingue diverse. Niente
alleanze. Niente fiducia. E nemmeno un esperanto all’orizzonte.
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