da: la Repubblica
Se non fosse per il Principato di Monaco
dove la speranza di vita alla nascita è di quasi 90 anni, gli italiani
sarebbero i cittadini più longevi d´Europa. Se non fosse per Roversi Monaco,
chiamato a “soli” 74 anni dal Consiglio di Gestione di Banca Intesa a
presiedere la controllata Banca Imi, i vertici della più grande banca italiana
sarebbero appannaggio esclusivo di ottuagenari, da un quarto di secolo in
quelle posizioni.
Anche l´ex interminabile rettore
dell´ateneo bolognese, comunque, aderisce, al patto per garantirsi poltrone a
vita: arriverà a questa nuova carica direttamente dalla Presidenza di
fondazione Carisbo, a sua volta azionista di Banca Intesa. Nello stesso giro di
nomine incrociate tra banche e fondazioni, Gianguido Sacchi Morsiani è stato
chiamato alla guida della Cassa di Risparmio di Bologna, carica che aveva già
occupato per 24 anni, dal 1980 al 2004. Ha due anni in meno di chi lo ha
nominato: Giovanni Bazoli, da 27 anni alla guida di ciò che oggi è Banca Intesa
San Paolo, pronto ad essere riconfermato a 81 anni come Presidente del
Consiglio di Sorveglianza.
È stato a sua volta designato capolista da Giuseppe
Guzzetti, prossimo al terzo mandato alla guida di Fondazione Cariplo,
nonostante lo statuto non ne preveda più di due, con la prospettiva di
completarlo quando avrà 86 anni compiuti. Si gioverà del precedente di Antonio
Finotti, confermato alla guida di Cariparo fino al 2018, quando avrà 89 anni e
sarà stato per 22 anni ai vertici della fondazione. Non sono casi isolati:
l'età media dei membri dei consigli d'amministrazione delle 23 maggiori banche
italiane è di quasi 5 anni più elevata che negli altri paesi europei. Lo è
anche la mediana, una misura che non risente
dei casi estremi, come i numeri
ragguardevoli che può esibire nei conti anagrafici quella che forse andrebbe
ribattezzata come Banca Matusa. Come dice una pubblicità del gruppo, “sono le
persone che fanno la differenza” ed è certamente possibile che i banchieri
italiani siano davvero eccellenti a tutte le età. Questo spiegherebbe perché,
in media, le persone che siedono nei board delle banche italiane guadagnino il
doppio dei banchieri tedeschi e ancora di più rispetto ai loro omologhi europei.
Spiegherebbe anche perché i compensi dei nostri banchieri rispondano più
all´età che alla redditività dell´azienda di credito che gestiscono. Vecchi
banchieri per una tradizione millenaria come quelle del fare banca sullo
stivale, purtroppo costellata, specie in quel di Siena, da numerosi fallimenti
(tra cui quello della Compagnia Gran Tavola, la più grande banca europea nel
Trecento, antesignana dello Ior, dato che gestiva le risorse dei Papi).
Se sono così bravi, viene da chiedersi perché non siano stati chiamati a
dirigere banche ancora più grandi, perché non abbiano voluto cimentarsi in
incarichi più prestigiosi anziché rimanere a vita sulla stessa poltrona.
Avrebbe fatto bene sia a loro che alle “loro” banche. È una buona prassi di
corporate governance quella di non andare mai oltre ai tre mandati per le
posizioni di amministratore delegato, segretario generale e presidente. Il
ricambio permette di fare pulizia nei bilanci e di innovare. Anche per questo,
Generali e Mediobanca hanno posto limiti di età ai loro vertici e agli organi
sociali, impedendo al consigliere di Banca Intesa, Alessandro Pedersoli, 84
anni fra qualche settimana, di ricandidarsi.
Ma i limiti di età o nel numero di mandati non affrontano la radice del
problema, che è nella governance delle nostre banche. Da noi esiste l´istituto
del banchiere a vita, perché il connubio fra banchieri e politici ha creato
roccaforti inviolabili che reggono a guerre e invasioni anche barbariche,
perché puntellate su cariche spalmate accuratamente su tutto l´arco
costituzionale, onde essere impermeabili ai cambiamenti di maggioranza a
livello sia locale che nazionale. Non stupisce perciò che si possano fare
nomine come quelle precedentemente evocate nel pieno del ciclone che ha
investito le nostre rappresentanze parlamentari, contribuendo quanto meno a un
loro forte ringiovanimento. Il fatto è che la gestione politica delle poltrone
bancarie diventa ancora più preziosa, irrinunciabile oltre che impresentabile,
quando i politici nutrono maggiori preoccupazioni per la propria carriera
futura. Quanti di loro si ritengono al capolinea, potranno sempre riciclarsi
trasformandosi in banchieri, magari dopo un periodo in purgatorio passato ai
vertici di qualche fondazione bancaria.
La gerobancrazia paralizza le nostre banche nel momento in cui dovrebbero dare
il maggiore contributo al rilancio dell´economia. Avrebbero bisogno di capitale
fresco, possibilmente iniettato da investitori istituzionali, in grado di
valorizzare la redditività nel medio-lungo periodo, scovando nuovi progetti
imprenditoriali al di fuori del mondo delle grandi famiglie ben noto agli
eterni banchieri. Invece, le fondazioni bancarie, che si sono dissanguate per
poter continuare a nominare i vertici delle banche, impediscono ora alle banche
di ricapitalizzarsi. Lo fanno esplicitamente, pur di non vedere diluite le
proprie quote, come nel caso di Fondazione Carige, che ha imposto alla banca
omonima, di cui detiene il 47 per cento delle azioni, “il minore aumento di
capitale possibile”. Oppure lo fanno implicitamente scoraggiando gli unici
investitori istituzionali oggi disponibili sulla piazza, i fondi comuni esteri,
dal partecipare agli aumenti di capitale. Perché come in tutti gli imperi nelle
fasi di declino, anche l´intreccio fra banche e fondazioni viola ogni regola,
pur di mantenersi in sella. Temendo che le liste nominate col manuale Cencelli
dalle fondazioni (che non dovrebbero comunque eleggere loro rappresentanti nei
board delle banche) non riuscissero a spartire tutte le poltrone di Banca Intesa,
il gestore da questa controllato, Eurizon, ha voluto intervenire anche sulle
liste di minoranza predisposte da Assogestioni. I fondi comuni esteri hanno
reagito a questa indebita invasione di campo (per statuto un gestore non può
partecipare alla scelta dei rappresentanti degli azionisti di minoranza nella
banca da cui è controllato) minacciando di uscire del tutto dal capitale di
Banca Intesa, se non da Assogestioni.
Comprensibile che le fondazioni bancarie, oggi in gravi difficoltà, non
vogliano mettere altri soldi nelle banche conferitarie. Ma non devono poter
essere messe nelle condizioni di usare il loro potere residuale per impedire
alle banche di rinnovare i loro vertici, di ricapitalizzarsi o, ancor peggio,
per avvelenare i pozzi. Se vogliono salvaguardare ciò che resta del loro
patrimonio, bene che si ritirino, concentrandosi sulla loro missione sociale
anziché sull´occupazione di poltrone, in rispettoso silenzio. A proposito, è
una volta di più fragoroso quello del Tesoro, l´autorità di vigilanza sulle
fondazioni bancarie, che ha più volte spronato le banche italiane a
ricapitalizzarsi. Cosa ne pensa del caso Carige? Che lezioni ha tratto dal
Monte dei Paschi?
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