da: La Stampa
Gustavo
Zagrebelsky, la democrazia alla prova del grillismo
Rischi
e opportunità: parla il presidente della Biennale dedicata in questa edizione
all’utopia realizzabile
di Cesare
Martinetti
Le guerre nel mondo, i conflitti senza
soluzioni, la finanza senza regole, le disuguaglianze che crescono, tra Paese e
Paese, tra cittadini e cittadini. «Pare che tutto ci stia sfuggendo di mano -
dice Gustavo Zagrebelsky -, sembra che non ci sia più nessuno in grado di
formulare un’idea che abbraccia e sia riconoscibile da tutti». La terza
edizione di Biennale Democrazia cade in un momento drammatico per l’Italia.
Sarà l’occasione per riflettere sulle norme di base della nostra società. Ne
parliamo con il presidente emerito della Corte Costituzionale, inventore (con
Pietro Marcenaro) e anima della Biennale.
Professor
Zagrebelsky, la parola democrazia associata a quella di utopia, di questi
tempi, sembra avere un connotato ironico: la democrazia non è più una
prospettiva reale?
«L’idea di fondo di Biennale è pensare
all’avvenire in modo da ristrutturare una prospettiva comune. Questo deve fare
la cultura politica. La parola utopia c’entra perché significa la proiezione in
un futuro di aspirazioni e tentativi di trovare soluzioni alla difficoltà del
presente».
Ma
l’utopia realizzabile è ancora un’utopia?
«Ci sono utopie utopiche, idee consolatorie
che permettono di rifugiarsi nell’immaginazione. Si tratta di un esercizio
intellettuale sterile. Ma ogni progettazione del futuro deve avere un aspetto
utopico. “Per mirare giusto nel bersaglio devi mirare più in alto”, diceva
Machiavelli. Lo ricorderà Carlo Ossola parlando dell’utopia in letteratura. I
condizionamenti renderanno il risultato finale inferiore al progetto. Ma il
progetto bisogna averlo».
Alla
Biennale ascolteremo dei progetti realizzabili?
«Stiamo cercando di far emergere qualcosa
di nuovo che già c’è, che cova sotto la cenere, che può costituire energia
feconda. Sulla base della premessa, diventata un luogo comune, che per
sopravvivere bisogna cambiare. Parleremo di economia, mondializzazione della
finanza, economia, produzioni, consumi, modi di produzione che non sperperano
risorse ambientali. Nuovi strumenti di partecipazione».
A
questo proposito il tema di democrazia e Internet è diventato decisivo con il
successo della lista di Grillo. Lei crede nella democrazia diretta per via
elettronica?
«La questione è questa: la tecnologia
informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità
immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di
qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono
essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più
consapevole, in processi di sintesi comune? Il dibattito alla Biennale darà
delle risposte».
Intanto
le prime votazioni alle Camere e la prospettiva dei voti di fiducia hanno già
posto la questione della trasparenza del voto dei singoli parlamentari grillini
minacciati di espulsione se usciranno dalla linea del «partito».
«Questo mi ricorda molto la fase giacobina
della rivoluzione francese, quando si era imposto agli elettori di votare in
pubblico. È il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo
dell’esercizio della libertà?».
Ed
è esplosa la questione del vincolo di mandato, se cioè i parlamentari siano
liberi di votare secondo coscienza o se debbano essere vincolati alla linea del
partito espressa in campagna elettorale.
«Nelle costituzioni liberali non c’è
vincolo di mandato. Nella nostra questo è previsto dalll’articolo 67, legato
all’idea che la democrazia, come diceva Hans Kelsen, è un regime mediatorio,
cioè un regime in cui le ragioni plurime si devono incontrare fra di loro e
trovare punti mediani. La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato,
esprime questa esigenza che in parlamento - il luogo dove ci si parla - sia
possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’aula non
sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o
niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle
circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo:
libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale
irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti,
mortificazione delle personalità».
È
una norma che appartiene a tutte le costituzioni liberali?
«Certo, viene dalla rivoluzione francese,
prima del giacobinismo. Non c’era in quella sovietica, né in quella della
Comune di Parigi, che però non appartengono alla nostra tradizione
costituzionale democratica».
La
crisi della democrazia è però innegabile, questioni come rappresentanza,
partecipazione, efficacia delle decisioni sono d’attualità anche nei sistemi
più giovani.
«Ma almeno per ora tutti si dichiarano
democratici. Non c’è ancora nessuno che si sia alzato per dire: basta con la
democrazia, c’è un modello migliore. Semmai si dice: questa democrazia, la
nostra, non ci piace, non funziona. Ma ciò significa che resiste l’idea di
fondo che c’è una democrazia alla quale dobbiamo mirare. Per il momento
democrazia resta una parola universale».
Però
è giustificato dire che questa nostra democrazia è in crisi e non funziona?
«C’è una legge universale della politica
secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel
giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare
oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la
distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile».
È
esattamente quello che percepiamo oggi in Italia, le elezioni ne sono state la
dimostrazione. Professor Zagrebelsky, ce la farà la nostra democrazia?
«Se riesce a riaprirsi, a combattere i
gruppi chiusi, i “giri” nascosti del potere, e riesce a far sentire i cittadini
partecipi della cosa pubblica e non espropriati. Quando si parla di
rinnovamento della democrazia si intende proprio questo. I gesti simbolici come
la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio delle spese che favoriscono
i parassitismi politici. Se si riuscirà a fare ciò anche utilizzando
virtuosamente i nuovi strumenti della comunicazione politica potremo dare una
risposta positiva alla domanda che fu di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi
saggi: la democrazia ha un futuro?».
E
se questo non succederà?
«Peggio per noi e per i nostri figli».
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