da: La Stampa
La
pagliuzza e la trave
di Luca Ricolfi
L’altro ieri,
collegati con il programma Ballarò,
i nuovi presidenti di Camera e Senato
(Piero Grasso e Laura Boldrini) hanno fatto la loro prima mossa politico-mediatica. Felici
e sorridenti, come due scolaretti al
loro primo giorno di scuola, hanno dichiarato a milioni di
telespettatori-elettori che, loro due, lo stipendio
se lo autoridurranno (del 30%).
Inoltre cercheranno di raddoppiare la
produttività dei parlamentari, facendoli lavorare anche il lunedì e il venerdì. E infine proporranno un abbassamento degli stipendi non solo dei deputati e dei senatori,
ma anche del personale di Camera e Senato, le cui retribuzioni sono «molto
alte». E qui, pudicamente, hanno aggiunto che quest’ultima riduzione,
coinvolgendo dei lavoratori, andrà negoziata con i sindacati.
È scontato che una mossa del genere non può che aumentare la già notevole popolarità
dei due neo-eletti presidenti, di cui un po’ tutti hanno sottolineato le
qualità, ma soprattutto la non appartenenza al ceto politico professionale.
Saremmo tutti felici che la medesima mancanza di attaccamento ai privilegi
della casta fosse manifestata un po’ da tutto il ceto politico, e non solo da
chi è appena entrato a farvi parte. E tuttavia, a mio parere, la campagna per l’autoriduzione degli stipendi
dei politici ha anche qualche aspetto
problematico.
Non mi riferisco
tanto ai contenuti delle proposte, su cui peraltro ci sarebbe da discutere (in
un Paese inflazionato dalle leggi, l’idea di un Parlamento che legifera anche
il lunedì e il venerdì più che un sogno è un incubo). Quel che mi lascia
perplesso è la penosa gara a chi è
più puro, più immacolato, meno politico, che si sta scatenando fra i politici
stessi. Era già abbastanza ridicolo
vedere Bersani e i suoi inseguire i grillini sul loro terreno, con la tesi
secondo cui l’autoriduzione dei parlamentari del Pd a favore del partito
sarebbe uguale o superiore a quella dei parlamentari grillini a favore del
Movimento Cinque Stelle. Ma ho trovato semplicemente umiliante (per le istituzioni) il ping pong fra il duo Boldrini-Grasso e Grillo, con i
primi che non perdono occasione per sottolineare che loro non sono casta, «come
il 99% degli italiani», e il secondo che li invita a ridursi lo stipendio
ancora di più (il 30% non basta, la riduzione deve essere almeno del 50%). Una
conferma, se ve ne fosse bisogno, che a
fare i puri si trova sempre qualcuno che si crede più puro di te.
Non mi sembra un
grande inizio. Il problema dei costi
della politica esiste, ma forse sarebbe
meglio sottrarlo alla propaganda. Un manipolo di parlamentari che pensa di
attrarre voti, suscitare consensi, o guadagnare in popolarità perché
trasferisce una parte dello stipendio al suo gruppo, perché pranza al sacco, o
arriva in Parlamento in bicicletta, va bene per dare un po’ di lavoro ai
giornalisti e ai fotografi ma non serve a cambiare le cose. Per essere veramente utile, una riduzione dei costi della politica
dovrebbe essere drastica nei redditi
individuali percepiti, ma soprattutto ampia
nella platea dei destinatari. Drastica negli emolumenti perché solo così si
terrebbero lontani dalla politica quanti abbracciano tale carriera solo per i
redditi che offre. Ampia nel numero di soggetti toccati perché solo così le
risorse che si potrebbero risparmiare avrebbero un impatto macroeconomico non
trascurabile (diversi miliardi di euro). Da questo punto di vista le (poche) autoriduzioni volontarie di
alcuni politici in vista servono a ben poco, mentre molto servirebbero leggi che agissero anche sull’immenso arcipelago di politici locali, consulenti, faccendieri,
fornitori, ditte appaltatrici, personale di servizio, ex politici in pensione.
Giusto per dare un ordine di grandezza, l’apparato
complessivo della politica ci costa almeno 20 volte l’ammontare totale degli
stipendi dei parlamentari. I cittadini paiono vedere assai bene la
pagliuzza dei costi del Parlamento, ma sembrano ben poco attenti alla trave
dell’apparato politico considerato nel suo insieme.
Da questo punto di
vista hanno fatto assai bene i nuovi
presidenti della Camere, dopo la boutade un po’ piaciona
dell’autoriduzione, ad attirare l’attenzione
sui costi e sui privilegi del personale che ha la fortuna di lavorare al servizio della politica
anziché di una normale impresa privata. Vedremo se i sindacati sapranno
raccogliere la sfida, o ripeteranno anche questa volta il solito copione,
secondo cui sono solo i dirigenti e gli alti funzionari a doversi fare carico
dei problemi della Pubblica Amministrazione. Ma vedremo, soprattutto, se la
politica – oltre a trovare il coraggio di ridurre i propri costi – troverà la
chiarezza per indicare su quale obiettivo intende convogliare le risorse così
liberate. Sapere che, come oggi accade, le (rare) rinunce dei singoli finiscono
nelle casse di un partito, di un movimento o di un gruppo parlamentare ci
conforta ben poco. Molto più ci conforterebbe sapere che i risparmi sono
regolati da una legge, sono ingenti, e permettono all’Italia di risolvere
almeno uno dei suoi innumerevoli problemi.
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