da: La Stampa
Non
basta una legge elettorale
di Luca
Ricolfi
La politica è in crisi, sentiamo ripetere.
E certo lo è, a giudicare dai risultati degli ultimi vent’anni: il Paese è allo
sbando, molti politici sono corrotti, non si riesce a formare un governo.
Quello che forse è meno evidente è che anche i rimedi che si stanno
sperimentando non sono la soluzione, ma sono parte integrante della
malattia.
La politica si sta comportando come una
squadra di calcio in crisi che, per superare la crisi, cercasse di vincere le
partite a tavolino, o condizionare gli arbitri, o accusare gli avversari di
doping, anziché allenarsi di più e meglio, impegnarsi a fondo in partita, o
cambiare qualche giocatore (e magari anche l’allenatore). È paradossale, ma la
politica non sembra rendersi conto che i problemi che deve affrontare sono
innanzitutto di natura politica, non di altro genere. E come tali andrebbero
risolti sul campo, non invocando demiurghi e agenti esterni.
E invece è proprio questo che sta
succedendo. La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e
allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di
privilegi e di costi della politica?
Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce
di più lo stipendio: l’etica
viene chiamata a sostituire la politica.
C’è un uomo politico che avvelena la
competizione fra destra e sinistra ma prende un sacco di voti? Ed ecco che
scattano tutte le armi improprie disponibili: leggi nuove di zecca per impedire
la ricandidatura, pressioni sulla magistratura perché reinterpreti una legge
esistente, che «se ben interpretata» potrebbe mettere fuori gioco il politico
che non si riesce a sconfiggere sul campo (una delle due manifestazioni di ieri
a Roma aveva precisamente questo scopo, mentre l’altra – in modo specularmente
aberrante – aveva lo scopo di difenderlo dalla magistratura). La legge, che
dovrebbe semplicemente essere rispettata da tutti, viene chiamata a risolvere
un problema politico che non si è stati capaci di risolvere con armi proprie,
ossia con la sola forza della politica, pur avendone tutta la possibilità: se
il Pd avesse candidato Renzi il politico della discordia sarebbe fuori giuoco,
e noi non staremmo ancora qui a sfogliare la margherita delle alleanze (m’ama?
non m’ama? Bersani non l’ha ancora capito che Grillo non lo ama?).
Ma il caso più interessante è quello della
legge elettorale. Qui non solo nella testa dei politici, ma anche in quella
degli elettori, si è installata una curiosa credenza. Dato che nessuno riesce a
vincere le elezioni, dato che a un mese dal voto non si sa ancora chi sarà il
premier, dato che in Parlamento non esiste alcuna maggioranza in grado di
sorreggere un governo, allora si è portati a credere che la colpa sia della
legge elettorale. Ma è una grandiosa bestialità. Le leggi elettorali possono
essere più o meno buone, più o meno adatte a un Paese, più o meno scandalose,
ma da sole non possono risolvere i problemi la cui natura è essenzialmente
politica.
Se per quasi mezzo secolo in Italia non c’è
stata alternanza fra destra e sinistra non è dipeso dalla legge elettorale
proporzionale ma da due fattori genuinamente politici: la divisione del mondo
in due blocchi, la mancata evoluzione del Partito comunista. Tanto è vero che i
socialdemocratici tedeschi, che le loro scelte riformiste le avevano fatte già
nel 1959 a Bad Godesberg (32 anni prima del Pci), non hanno dovuto aspettare la
caduta del muro di Berlino per andare al governo, e lo hanno fatto con una
legge di impianto prevalentemente proporzionale. L’alternanza al governo fra
destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è un frutto della
politica, non della legge elettorale.
Così oggi in Italia è del tutto fuorviante
pensare che possa essere una nuova legge elettorale a tirarci fuori dalle
secche in cui la politica si è andata a cacciare. Se le elezioni non riescono a
esprimere una maggioranza e il Parlamento non riesce ad esprimere un governo è
per due precise ragioni, entrambe di natura politica. La prima è che il nostro
sistema politico è improvvisamente divenuto tripolare, come nel 1992-1993
(subito prima della discesa in campo di Berlusconi), quando l’Italia per una
breve stagione assunse un assetto tripolare, con la Lega egemone al Nord, il Pci
al centro e la Dc al Sud. E i sistemi tripolari non sono immuni al «paradosso
di Condorcet»: può succedere che una maggioranza preferisca A a B, un’altra B a
C, ma che vi sia anche una maggioranza che preferisce C ad A. Mettete,
nell’ordine in cui volete, Bersani, Berlusconi e Grillo al posto di A, B, C, e
vedrete in che bel pasticcio potremmo esserci cacciati. La seconda ragione è
che Bersani e Grillo, ossia i due semi-vincitori delle elezioni, pensano solo a
conquistare (o riconquistare) voti, il primo puntando sull’antiberlusconismo
(un’idea veramente nuova e originale, come si addice a un «governo del
cambiamento»), il secondo scommettendo sulla nascita di un governo Pd-Pdl così
abominevole da consegnare il 51% (pardon: il 100%) dei consensi al Movimento
Cinque Stelle.
Pensare che da un simile ginepraio possa
tirarci fuori una legge elettorale è molto ingenuo. Certo, l’orrido Porcellum
va cambiato, e alla svelta (io avrei anche una proposta: chiediamo a Giovanni
Sartori, il nostro studioso di sistemi elettorali più illustre, di scrivere lui
una legge sensata). Ma nessuna legge elettorale può produrre, di per sé, quel
che solo la politica può darci, ossia un governo che abbia il consenso
necessario per governare. Se tornassimo al proporzionale, cadrebbe la finzione
attuale del vincitore (chi ottiene il premio di maggioranza), ma comunque
dovremmo assistere ai medesimi estenuanti negoziati di oggi. Se sopprimessimo
il Senato e mantenessimo l’attuale premio di maggioranza alla Camera,
assisteremmo alla nascita di governi che hanno il 54% dei seggi in Parlamento e
il 25% dei consensi nel Paese (tenuto conto del non voto, è questo il consenso
reale di cui godono oggi Bersani-Berlusconi-Grillo). Se adottassimo il doppio
turno alla francese, che tanto piace al Pd, dovremmo prepararci ad assistere al
paradosso dei sistemi tripolari: il vincitore del primo turno perde al
ballottaggio, perché il terzo arrivato si allea con il secondo. Spieghiamolo
con due esempi: nelle regioni rosse vanno al ballottaggio Pd e Grillo, ma il
Pdl escluso si vendica votando Grillo. Nelle regioni bianche vanno al
ballottaggio Pdl e Grillo, ma il Pd escluso si vendica votando Grillo. Insomma,
vince sempre Grillo, anche se Pd e Pdl hanno il doppio dei suoi voti.
Per questo, pur convinto che le regole del
gioco vadano rinnovate, e vadano rinnovate nel senso di una maggiore efficienza
– una sola Camera, meno deputati, più potere al premier, regolamenti
parlamentari snelli – vedo con qualche perplessità l’attuale tentativo di
Bersani di ottenere la benevolenza del Pdl con una mera intesa sulle regole. Di
regole istituzionali meno paralizzanti c’è sicuramente bisogno. Di una nuova
legge elettorale pure. Ma le regole servono per governare, e governare
significa affrontare tutti gli altri problemi, ossia lavoro, tasse, stato
sociale. Di un accordo sulle regole che lasci tutto il resto come prima, con
una sinistra e una destra che si odiano, e odiandosi paralizzano qualsiasi
governo, non si sente proprio il bisogno.
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