da: Il Fatto Quotidiano
Nelle quasi due ore di intervista concordata per rispondere ai tre minuti che gli
avevo dedicato a Servizio Pubblico, Corrado Formigli e Piero Grasso
hanno detto moltissime cose. Tralascio, per palese irrilevanza, quelle dette da
Formigli (a parte il rivendicare come “la cosa più normale del mondo” convocare
con un tweet notturno un confronto fra la seconda carica dello Stato e un giornalista
di un’altra testata, che fra l’altro non frequenta twitter). E passo
immediatamente al presidente del Senato,
che si conferma purtroppo un pubblico
mentitore e approfitta del fatto che
i suoi colleghi della Procura di Palermo non possono andare in tv a sbugiardarlo. Se però mi vorrà querelare, sono in
molti che verrebbero volentieri a testimoniare sotto giuramento come sono
andate le cose e dove sta la verità.
Balla
n. 1:
appello Andreotti. Grasso dice di non aver firmato né “vistato” l’atto di
appello della sua Procura contro l’assoluzione di Andreotti in primo grado per
motivi squisitamente tecnici, in quanto era stato sentito come testimone e la
sua adesione all’appello avrebbe precluso ai giudici la possibilità di
risentirlo in appello. È falso. Quando, nell’estate 2000, i procuratori
aggiunti Scarpinato e Lo Forte gli consegnano il plico dell’impugnazione,
Grasso rifiuta non solo di sottoscriverlo, ma anche di apporre il “visto”
rituale, dicendo che non l’ha letto e non c’entra. Un gesto di plateale presa
di distanze, che gli vale le lodi sperticate del Foglio di Ferrara e
del Velino di Jannuzzi. Anziché respingere quegli imbarazzanti elogi,
Grasso rilascia un’intervista al Quotidiano Nazionale e spiega che
“forse, se avessi avuto più tempo a disposizione, avrei potuto collaborare
anch’io alla stesura” (7.8.2000). E un’altra a La Stampa in cui
boccia
i processi della stagione Caselli, capace – a suo dire – di “ottenere
condanne solo sulla stampa, nella fase delle operazioni di cattura, e non sempre
nelle sedi giudiziarie e in via definitiva” (19.8.2000). Potrebbe dichiarare
subito che il mancato visto è dovuto a un motivo squisitamente tecnico (il suo
ruolo di ex testimone), ufficializzando così la sua vicinanza ai pm nel mirino
per aver osato processare uno dei padroni d’Italia. Invece, col suo attacco a
Caselli e ai processi eccellenti istruiti sotto la sua guida, li delegittima e
li isola. Soltanto parecchio tempo dopo Grasso scoprirà improvvisamente di non
aver firmato l’appello Andreotti (fra l’altro coronato dal successo di una
sentenza d’Appello, poi confermata in Cassazione, che dichiarerà provata la
mafiosità dell’ex premier fino al 1980) perché aveva testimoniato in primo
grado. Una scusa puerile e infondata, sia perché nessuno pensava di richiamarlo
a testimoniare in appello; sia perché, da procuratore nazionale antimafia,
Grasso ha poi coordinato per anni varie indagini sulle stragi, in cui era stato
chiamato a testimoniare più volte sui suoi rapporti con Falcone e sulla sua
funzione di giudice del maxiprocesso, e non si è mai sognato di astenersi per
quel motivo.
Balla
n. 2:
caso Giuffrè. Nel giugno 2002 si pente Antonino Giuffrè, boss delle
Madonie, fedelissimo di Provenzano e membro della Cupola. Grasso dice che
Giuffrè “valeva oro” perché sapeva tutto di tutti i livelli mafiosi. Dunque
cosa fece? Non avvertì nessuno dei pm antimafia, né tantomeno le procure di
Firenze e Caltanissetta che indagavano sulle stragi, e per ben tre mesi se lo
gestì da solo, clandestinamente, insieme al fido aggiunto Pignatone e al fido
sostituto Prestipino (all’altro aggiunto Lo Forte diede la notizia, ma negò
l’accesso ai verbali). E lo interrogò “personalmente nel carcere di Novara”, ma
“solo i sabati e le domeniche”: mossa geniale, quella di giocarsi 5 giorni su 7
a settimana, visto che la nuova legge sui pentiti dava ai pm solo 6 mesi di
tempo per cavargli di bocca tutto quel che sapeva. Perché tanta segretezza? Per
evitare “fughe di notizie” che avrebbero messo a repentaglio la vita dei
famigliari del neopentito: oltretutto – di – ce Grasso – “Giuffrè mi aveva
parlato di talpe in Procura, che poi abbiamo individuato”. Se ne deduce che
Grasso sospettava (senza prove) dei suoi colleghi, e perciò disattese la
regola-Falcone della “circolazione delle informazioni” nei pool antimafia. Ma
non basta: nei primi tre mesi (su sei a disposizione) interrogò Giuffrè quasi
soltanto su certe estorsioni nelle Madonie, che porteranno all’arresto di una
dozzina di pastori: la gallina delle uova d’oro che partorisce il topolino. Per
annunciare i mirabolanti arresti, Grasso convocò una conferenza stampa il 20.9,
svelando la collaborazione di Giuffrè “nuovo Buscetta”. Insomma, la fuga di
notizie la fece il procuratore che ora dice di averla sventata, precludendo
l’effetto sorpresa che poteva portare alla cattura di latitanti o al
rinvenimento di prove decisive sui rapporti mafia-politica. Per questo tutta la
Dda di Palermo “processò” Grasso che alla fine dovette capitolare: Giuffrè
poteva essere sentito (giorno e notte, a tappe forzate, essendo rimasti solo
tre mesi) dai pm dei processi eccellenti. A loro rivelò particolari importanti
su Andreotti, B., Dell’Utri e trattativa, che Grasso non aveva chiesto. Non
solo: consentì di individuare il referente mafioso delle talpe in Procura (che
non erano pm, ma i marescialli Ciuro e Riolo): il costruttore Michele Aiello.
La scoperta si deve ai pm Scarpinato, Lari, Russo, Paci, Piscitello, Guido e
Tarondo che lo interrogarono a tutto campo il 12.11.2002. LìGiuffrè rivelò che
Aiello era un prestanome di Provenzano. Così Grasso e i suoi, due anni dopo,
fecero arrestare lui e i marescialli-talpa. Dunque è falso che la segretezza su
Giuffrè abbia consentito la scoperta delle talpe: al contrario, fu proprio
quando Grasso dovette informare su Giuffrè i suoi pm che le talpe furono
smascherate.
Balla
n. 3:
Ciancimino & C. Partito Grasso da Palermo nel 2005, dai cassetti della
Procura saltano fuori un sacco di documenti dimenticati o trascurati sui
rapporti mafia-politica. 1) Le intercettazioni dirette e/o indirette di
telefonate del 2003-2004 fra il prestanome di Vito Ciancimino, il ragionier
Lapis, e gli on. Cintola, Romano e Vizzini, in cui si parlava anche di Cuffaro,
e che facevano ipotizzare una corruzione mafiosa. 2) Un pizzino di paternità incerta
(Ciancimino? Riina? Provenzano? Un loro scriba?) con minacce e promesse di
appoggio a B. in cambio di una tv Fininvest. Grasso l’altra sera si è fatto una
risata: ai suoi tempi Massimo Ciancimino “non collaborava” e i Carabinieri o i
suoi sostituti – lui, mai – “commisero degli errori o forse trascurarono
qualcosa”. Già, ma era difficile che Ciancimino collaborasse, visto che la sua
Procura non gli domandò nulla sulla trattativa. E non fece domande sulle carte
sequestrate a Ciancimino jr. sulla trattativa: come il pizzino su B. e
Dell’Utri (puntualmente segnalato dall’Arma alla Procura). Grasso dice che “non
si sapeva chi l’avesse scritto, forseProvenzano o Riina”. Invece di indagare
meglio, lo gettarono in uno scatolone, dove lo ritrovò un pm dopo la dipartita
di Grasso. Quanto alle telefonate dei/sui quattro politici, Grasso sostiene che
non erano dirette, ma fra terze persone che accennavano a nomi di battesimo
imprecisati: i Carabinieri non capirono che “Totò” era Cuffaro e “Saverio” era
Romano (probabilmente pensarono al principe De Curtis e a Borrelli), dunque
ignorarono i nastri “senza neppure trascriverli”. Ma neanche questo è vero: le
telefonate erano fra Ciancimino jr., Lapis e tre politici. Grasso aggiunge che,
in ogni caso, “Cintola è morto, Cuffaro è stato condannato, Romano è stato
assolto e per Vizzini c’è una richiesta di archiviazione per prescrizione”,
dunque la dimenticanza “non fu un gran danno”. Ne avesse azzeccata una: Cuffaro
è stato condannato per altro (favoreggiamento mafioso) e Romano assolto per
altro (concorso esterno). Sulla presunta corruzione mafiosa, Cuffaro è uscito
dalle indagini; per Romano pende una richiesta di archiviazione per
prescrizione; idem per Vizzini perchè il Parlamento ha negato l’uso di
numerose intercettazioni. É incredibile che il Pna uscente ignori fatti così
gravi. Se poi sul caso incombe il rischio di prescrizione, è proprio perchè le
bobine furono ignorate nella sua gestione nel 2005 e scoperte dai suoi
successori nel 2008, perdendo tre anni preziosi. In realtà i carabinieri
obbedirono a una circolare diramata da Grasso il 26.11.2004 sulle
intercettazioni di parlamentari su utenze di soggetti terzi: “Non dovranno
essere riportate nelle richieste di intercettazioni o di proroga, né in
qualsiasi altra nota… all’Autorità giudiziaria”, ma solo trasmesse con “note
separate” alla Procura, mentre nei “brogliacci” si deve annotare solo che le
intercettazioni esistono. Così, se un killer confida a un deputato che sta per
uccidere qualcuno, la polizia non può riportare la conversazione nella
richiesta di intercettare il killer, solo perché il killer ha preannunciato
l’omicidio a un deputato. Senza la circolare, magari, i Carabinieri avrebbero
segnalato alla Procura le telefonate dei politici. E la Procura di Grasso si
sarebbe forse accorta per tempo della loro esistenza.
Balla
n. 4:
le querele minacciate. “Mai minacciato querele a Travaglio”, assicura
Grasso. Invece il 10.1.2006 Grasso definì il libro Intoccabili. Perché la
mafia è al potere (Bur) scritto da Lodato e da me “opera di
disinformazione scientificamente organizzata” (non disse da chi) e aggiunse:
“Non mancheranno le ‘sedi giudiziarie ed istituzionali in cuifar trionfare la
verità’”. Poi naturalmente se n’è tenuto alla larga.
Balla
n. 5:
l’amante del confronto. Grasso lamenta, sull’orlo delle lacrime,
l’impossibilità di ottenere un confronto col sottoscritto. Se ciò fosse vero,
accetterebbe il mio invito a dibattere con me a Servizio Pubblico, Otto
e mezzo, al Tg di Mentana, o da Lerner. E, se ciò fosse vero, avrebbe risposto
venerdì a Santoro che lo cercava tramite la batteria del Viminale, anziché
fargli rispondere (l’in – domani e da una segretaria) che era totalmente
impegnato sabato e domenica (peccato che sabato fosse a Roma, ai funerali di
Manganelli). Personalmente cerco un confronto con lui da dieci anni.
Nell’estate 2003, quando ricostruii per MicroMegale drammatiche spaccature
nate nella sua Procura (quelle che lui liquida come “normali dialettiche
interne”, mentre lui si sforzava di “te – nere unita la magistratura”), il
direttore Flores d’Arcais lo invitò a un forum in redazione o a un confronto
con Scarpinato. Ma Grasso declinò entrambi gli inviti. Idem quando molti dei
suoi pm chiesero un confronto con lui dinanzi al Csm.
Balla
n.6:
caso Schifani. Archiviato ai tempi di Grasso, Schifani è stato di nuovo
indagato dopo la sua dipartita. E, contrariamente a quel che lui afferma, non è
stato archiviato: la richiesta è ancora all’esame del gup Piergiorgio Morosini.
Balla
n.7:
le leggi anti-Caselli. Dice Grasso che, contrariamente a quanto ho
sostenuto a Servizio Pubblico , le tre leggi del governo Berlusconi
nel 2005 per eliminare il suo concorrente Gian Carlo Caselli dal concorso per
la Dna, non furono da lui “ottenute”. Gli piovvero in testa come la casa di
Scajola: a sua insaputa. “Ottenere significa chiedere e io non ho mai chiesto
niente”. Ma ottenere significa anche meritare. Si è mai domandato perché ha
meritato tre norme (e da che governo!) contro il suo unico avversario, e dunque
in suo favore? E perché i cinque membri laici del centrodestra al Csm votarono
per lui? E perché, mentre il centrodestra cannoneggiava, spiava fin dentro i
calzini, insultava, attaccava, faceva punire, chiedeva di trasferire,
delegittimava tutti i magistrati più in vista d’Italia, e tutti i pm antimafia,
elogiava, applaudiva, favoriva per legge e votava soltanto uno: lui? Grasso
sostiene che le tre leggi non ebbero effetto perché il Csm avrebbe potuto
procedere alla nomina del Pna in un plenum straordinario, in fretta e furia,
prima che entrasse in vigore la terza e decisiva legge anti-Caselli. Il quale
dunque “se la deve prendere con i colleghi che impedirono la decisione”. Balle:
la commissione Incarichi direttivi dà 3 voti a lui e 3 a Caselli il 12 luglio
2005; e il 20 luglio viene approvata la legge: come può il plenum deliberare in
una settimana, visto che uno dei relatori delle candidature deve ancora
stendere le motivazioni? Inoltre la lettera che chiedeva il plenum
straordinario su input del centrodestra era irricevibile, infatti non ebbe
risposta dal vicepresidente Rognoni. La legge poi ebbe un effetto gravissimo:
escludendo Caselli, gli impedì di ricorrere al Tar contro la nomina di Grasso
vantando titoli e anzianità che Grasso si sognava. In ogni caso resta la
questione di principio: un cultore della Costituzione come Grasso dovrebbe
sapere che l’art. 105 affida le nomine dei magistrati al Csm senza interferenze
del governo. E avrebbe dovuto rifiutare quel concorso truccato a suo favore. Invece
ne approfittò senza batter ciglio, salvo poi – quando la Consulta dichiarò
incostituzionale l’ultima norma – riconoscere che sì “era stata contro Caselli
e a favore mio”, ma conservando la poltrona. Ottenuta, sì “ottenuta” in quel
modo scandaloso. * * * Esaurito – per esigenze di sintesi e per ora (il resto
domani aServizio Pubblico) – il capitolo-balle, e sorvolando sul paragone tra
le critiche di un giornalista e le minacce dei mafiosi alla sua famiglia,
restano un paio di violenze alla logica che confermano platealmente la sua fama
di italianissimo furbo, una sorta di Alberto Sordi della toga. 8. Premio
antimafia a B. È stato tutto un equivoco, colpa di “quei birbanti de La
Zanzara”. Ma per non cadere nel presunto tranello, anziché dire e ripetere che
B. merita “un premio speciale” antimafia, bastava rispondere: “No, nessun
premio a chi dice che Mangano è un eroe e che i magistrati sono matti,
antropologicamente diversi dalla razza umana, golpisti, cancro della
democrazia”. Nessuno avrebbe equivocato. 9. Processi & (in)successi. Se
un pm si chiama Ingroia o Caselli o Gozzo e si vede condannare un imputato,
tipo Dell’Utri, per Grasso “non deve viverlo come un successo”. Anzi, come una
sconfitta, perché il processo “è durato troppo”. Se invece l’imputato si chiama
Cuffaro e viene condannato e il pm si chiama Grasso, allora è un trionfo: la
prova che il suo “metodo” è quello giusto, mentre quello degli altri era
sbagliato, viziato da “processi gogna” a politici poi assolti, dunque da non
processare proprio (ma i processi non servono proprio a stabilire se uno è
colpevole o è innocente?). Quali? “Non è elegante fare nomi”. Invece i nomi dei
suoi imputati politici Grasso li fa eccome e molto elegantemente. Tanto ce n’è
solo uno: Cuffaro. Anzi no, ha sgominato anche un altro pezzo da 90: “Vincenzo
Lo Giudice detto Mangialasagne”, nientemeno che consigliere regionale Udc. E
qualcuno osa insinuare che si sia tenuto a distanza dalle indagini sulla
politica? 10. Applausi da B. e Dell’Utri. Se B. applaude il suo discorso
al Senato e se Dell’Utri si spertica in elogi in ogni intervista, è colpa delFatto che
chiede pareri su di lui a “persone non in auge dal punto di vista dell’opinione
pubblica”. Ma Dell’Utri, prima che lo intervistassimo, aveva già esternato qua
e là in difesa di Grasso: “È equilibrato, un uomo di Stato. Lui sa chi sono io…
Grasso è brava persona, sono contento per la sua elezione a presidente del
Senato… Non è un magistrato fanatico come Ingroia”. E già nel 2004 gli aveva
dipinto un impareggiabile ritratto umano: “Grasso, quando era giovane, giocava
a calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perché a fine partita
usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva
sempre a non schizzarsi…”. Comunque, promesso: la prossima volta che ci servirà
un parere su Piero Grasso, chiederemo direttamente a Piero Grasso.
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