da: La Stampa
Gli
avvelenati
L’altro giorno un
alto dirigente del Pd mi ha inviato questo messaggino straziante: «Vorrei
andare in aula a cantare l’Avvelenata di Guccini e poi scomparire
definitivamente».
Qui la politica non
c’entra, quello che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi è innanzitutto uno
psicodramma umano. Una generazione di notabili del centrosinistra, cresciuta
durante il ventennio berlusconiano, si ritrova accomunata al grande avversario
nel giudizio universale in atto. Per il popolo di Grillo - avamposto di un
sentire molto più diffuso che si estende perlomeno agli elettori di Renzi - i
politici della cosiddetta Seconda Repubblica sono tutti uguali, nel senso di
egualmente responsabili. Bersani come Berlusconi. Franceschini come Cicchitto.
Finocchiaro come Santanchè.
E loro - i Bersani,
i Franceschini, le Finocchiaro - non se ne capacitano. Si sentono diversi, e in
alcuni casi - credetemi - lo sono davvero. Ma quando la valanga rotola a valle
non fa selezioni. E serve a ben poco elencare i propri meriti: quell’arguta
legge invano proposta, quel formidabile comizio purtroppo equivocato,
quell’accorato appello rimasto inascoltato. Il disgusto per una classe
dirigente che ha fallito nel suo complesso azzera ogni distinguo e trasforma
persino i tentativi di sopravvivenza in un ulteriore supplizio. Con la scelta
di due facce nuove per le presidenze delle Camere, il buon Bersani ha suggerito
l’unica via d’uscita possibile per il governo: metterne una anche lì,
sacrificando la sua.
(«Ma s’io avessi
previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni…»
Francesco Guccini, L’Avvelenata).
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