da: La Stampa
I
guai dei tecnici che vogliono fare i politici
di Luigi
La Spina
Infierire sarebbe così facile e così
meritato che verrebbe voglia di cercare argomenti per difendere il governo e i
due ministri competenti (?!), giustificare, in qualche modo, quella che il capo
di stato maggiore ha definito, qualche giorno fa, «una farsa» e che, ieri, in
Parlamento, ha superato persino i caratteri di un genere drammatico che, pure,
ha grandi tradizioni e nobili interpreti. Ricorrere a quelle parole che
cominciano tutte con la «s», come sconcerto, stupore, sgomento, sdegno e finiscono
tutte con una condanna senza appello.
Oppure si potrebbe solleticare la
complicità del lettore con l’irrisione e il sarcasmo, sfogando così l’amarezza
e la vergogna per una figuraccia internazionale quale, nella storia della
Repubblica, si fa fatica a ricordarne una somigliante. Una tentazione che
promette un effetto brillante, ma che sarebbe imperdonabile accogliere, perché
non si può davvero sorridere sulle spalle di due militari italiani in attesa di
un processo che potrebbe condannarli, se non alla morte, a una lunga pena
detentiva.
Meglio, allora, avvertire il rischio e
sollecitare l’allarme davanti all’imprevedibile incrocio tra una crisi di
governo, già molto complicata sullo sfondo di possibili nuove elezioni e uno
«tsunami» devastante sul governo Monti , con riflessi negativi persino sul
Quirinale. Istituzioni che, nel frattempo,
dovrebbero reggere l’immagine
dell’Italia sul piano internazionale, per evitare conseguenze gravi sui conti
della nostra finanza e della nostra economia. Una situazione che, oggi,
dovrebbe imporre a tutti i partiti, per un minimo di responsabilità nazionale,
atteggiamenti che non cerchino di sfruttare il dibattito sul caso dei marò e
delle dimissioni del ministro Terzi nell’occasione per una sfacciata e contingente
propaganda politica.
L’occasione, invece, potrebbe essere anche
utilizzata per cercare di rispondere alla domanda che, in queste ore, un po’
tutti si fanno. Perché quel governo Monti e quei «tecnici», chiamati in
soccorso di una politica fallimentare, celebrati e celebratisi come i salvatori
dell’Italia, rispettati in sede internazionale e stimati dalla stampa estera,
stanno per concludere la loro esperienza, proprio su quella scena mondiale
teatro di tante soddisfazioni, in un modo così disastroso? In un modo tale da
cancellare, magari ingiustamente, un ricordo, nella memoria degli italiani, che
poteva essere diverso?
C’è solo un motivo di consolazione, forse,
in una vicenda dove è davvero difficile trovarne. Quella di un chiarimento,
severo ma illuminante, sulla questione dei tecnici in politica. Una ipotesi
auspicata fin dai lontani tempi del ministro repubblicano Visentini e che,
periodicamente, si affaccia quando la politica si manifesta inadeguata a
risolvere i nostri problemi. La delusione per questo epilogo del governo Monti
potrebbe indurre alla errata conclusione che la competenza sia inutile o un
ostacolo alla buona politica. Invece, proprio la lezione che si può trarre dal
lavoro compiuto dal governo Monti, in questo anno e mezzo di attività, dimostra
che i guai cominciano quando i tecnici esulano dalle loro competenze e sono
sedotti dalla prospettiva di cambiare mestiere e di trasformarsi in politici.
Tentazione che, sulla scia dell’esempio più importante, quello del presidente
Monti, ha contagiato, ad un certo momento, anche il suo ministro degli
Esteri.
Davanti a questa mutazione genetica così
allettante, si palesano, allora, i dieci «peccati capitali» dei tecnici che
vogliono cambiare mestiere: 1) La sopravvalutazione della competenza. Poiché è
l’unico motivo per cui vengono chiamati, essi pensano che le loro teorie siano
infallibili e, se producono errori, la colpa non è di teorie sbagliate, ma di
realtà che sbagliano a non adeguarsi. 2) La pelle sottile. Abituati alle
riverenze accademiche, non sopportano le durezze dello scontro politico. 3)
L’ingenuità. Sottovalutano le capacità di interdizione delle burocrazie
ministeriali, così potenti da far fallire qualsiasi progetto d’innovazione. 4)
L’isolamento professionale. Se i consigliori decidono, chi consiglia i
consigliori? 5) Un linguaggio che tradisce. Non c’è niente di peggio che
scambiare un’aula di università, piena di studenti intimoriti, per un’assemblea
parlamentare pronta ad azzannare chiunque. 6) Un’emozione che tradisce. Controllare
i sentimenti non è facile, per chi non ha imparato la cinquantennale lezione di
un Andreotti. 7) I tempi troppo veloci. La politica non consente le lentezze di
chi è abituato a meditare troppo prima di rispondere (anche di fronte alle
telecamere). 8) A proposito di tempi: sanno di essere ministri «a tempo», ma
vorrebbero estendere all’infinito quella scadenza. 9) Suscitano troppe
speranze, perché possano arginare le inevitabili delusioni. 10) Ultimo e più
grave peccato: la vanità, per chi non è abituato a padroneggiarla, come gli
attori o i politici, si trasforma sempre in un crudele boomerang.
In un mondo in cui si pensa di poter fare a
meno dei medici, cercando le ricette su Internet, degli avvocati, sfogliando il
codice, degli idraulici, ricorrendo agli esperti casalinghi del «fai da te» e,
magari, pure dei giornalisti, utilizzando i più comodi tramiti comunicativi
della «rete», sarebbe ora che anche i cosiddetti tecnici rispettassero le loro
competenze e le loro professionalità e non invadessero quelle degli
altri.
Nessun commento:
Posta un commento