da: la Repubblica
Nunc dimittis servum tuum: comincia così il
cantico di Simeone, l'ebreo giusto, appena vede Gesù presentato al Tempio. La
prima parola che dice, rivolgendosi a Dio, è dimissione. Antiche consuetudini
si sfanno, l'attesa messianica finisce perché il messia è lì, lo sta tenendo
fra le braccia.
Si entra in un'altra orbita, un cammino affatto diverso inizia all'insegna di
quella che Roland Barthes ha chiamato: disoccupazione di spazi, peregrinatio in
stabilitate.
Oltre il Tevere, proprio questo sta accadendo nella Chiesa. Scossa dalla
corruzione, orfana di luce, ridotta a lobby, la Chiesa tasta come cieca le vie
e scopre che non ce ne sono due ma solo una, perché l'altra s'inabissa: la via
è il trono vuoto, perché lo occupi chi sappia far proprio il nunc dimittis,
spogliandosi di potere e di mitre maestose.
Un unico filo lega le dimissioni di Benedetto XVI il 10 febbraio e la nomina,
il 13 marzo, di Papa Francesco: un mese, tutto all'insegna della
"disoccupazione di spazi". È significativo che il nuovo Pontefice
disdegni gli ori di cattedrali e paramenti. Il papato girava a vuoto, e il ricominciamento
è possibile a condizione di mettere in questione se stessi, radicalmente.
"Quaestio mihi factus sum", diceva Agostino: io stesso son divenuto
per me problema, peso. Memore della semplicità oltre che della povertà di San
Francesco, il Papa parla ai cristiani con parole inattese, non di padre pontificante
ma di servo.
Non si sa quali effetti sortirà questo mese
di ostentato trono vuoto; si può solo intuire che per sopravvivere, la Chiesa
doveva passare di qui.
È strano come certe parole in certi momenti colorino ogni pensiero, ogni dire.
In queste ore sono come un metro, che permette di misurare la cecità della
politica, delle sue istituzioni: in Italia e anche in Europa. La stasi di
ambedue cos'altro è, se non incapacità di distinguere il bivio che hanno di
fronte, e attaccamento alle inerti abitudini descritte da Beckett:
"L'abitudine è un patto sottoscritto dall'individuo col suo ambiente. È la
garanzia di una tacita inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza.
L'abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo vomito". Si chiama
anche routine: letteralmente vuol dire piccola via, ripetutamente percorsa
quando non si osa la grande.
Imboccare viuzze significa non rinunciare al potere, starsene immobili, non
tollerare l'incursione di sfide o giudizi: tenerselo stretto, il potere, come
il Presidente del Senato che ritiene inammissibili le critiche d'un solo
giornalista. In Germania Est si racconta che tale fu l'ordine che le autorità
sovietiche diedero ai governanti comunisti, quando cadde il muro di Berlino:
"Rientrate in voi stessi, fatevi di ghiaccio".
L'Italia fa questo, da anni: ha congelato Mani Pulite, e ogni chiarimento,
correzione, pur d'evitare la trasformazione di sé. Anche il movimento Cinque
Stelle, che pure ha vinto chiedendo una mutazione della società e dei partiti,
è preda di una sorta di paralisi. Ilvo Diamanti ha spiegato, lunedì su Repubblica, l'impasse di una
convivenza tra anime contrarie, innovative e conservatrici. L'uscita dal
sistema prevale su ogni miglioramento concreto, ottenibile subito, svigorendo
la forza stessa che fece nascere, attorno al bene pubblico, il movimento. È il
rischio del M5S: occupare un trono-postazione, in attesa dei tempi in cui il
Messia verrà col suo Regno. Non lo sfiora il sospetto che il Regno sia già qui,
che l'attesa sia un escamotage. Che le vie non siano due ma una: rinunciare
all'isolamento splendido del trono, aprire un varco, proporre a chiare lettere
il nome di un suo papa Francesco. Altrimenti ti chiamerai movimento ma vecchio
partito rimarrai: con le sue abitudini da recinto, con la sua sconnessione dalla
cittadinanza attiva che ti ha fatto re.
Quel che urge non è la prorogatio dell'esistente - una delle
tentazioni di Cinque Stelle - ma la declaratio con cui Benedetto
XVI ha innovato, spogliandosi del proprio scanno: le forze che ho "non
sono adatte a esercitare in modo adeguato il ministero". Alcuni hanno
detto: "è la fine". Era un inizio invece, era rinuncia a parte di sé
per far spazio al nuovo. Così per i politici: sono a un bivio, e chi serve i
propri ideali diminuisce un po' se stesso, coglie il momento se si presenta.
Apprende la destrezza astuta che prolunga il carisma: fin da subito mostra che
entrare in un'altra orbita politica è possibile. E se non a Dio, chiede alla
coscienza: "Dimettimi, esiliami dall'istinto abitudinario che mi abita".
Secondo l'economista Albert Hirschmann, è così che le istituzioni si riformano:
mescolando l'energia ultimativa dell'uscita, dell'exit, al lievito della parola
(voice), che sbalestra la politica da dentro. Proprio di quest'amalgama hanno
bisogno gli italiani per superare la stasi, e l'Europa per vincere una crisi
che rivela la propria cecità, compresa la cecità alla democrazia. Anche
nell'Unione si tratta di indicare il trono vuoto, i sovrani finalmente politici
e i parlamentari forti che devono riempirlo. Da quando l'Euro trema, l'Unione
s'aggrappa alla viuzza di cure che la squilibrano, l'avvelenano. Sbagliamo
bersaglio accusando i mercati-padroni: sono i politici a non essere padroni di
sé. A non vedere che loro sono la quaestio, il problema e l'onere. Non è l'Euro
traballante che viviamo ma un più vasto sisma. I politici l'occultano, passano
il tempo disputando su dilemmi esistenziali: esiste l'Unione? siamo contro?
per? In tempi prosperi la domanda serviva, ma oggi lo spettro che s'aggira e
impaura è la crisi, non l'antieuropeismo che la crisi secerne. Oggi la disputa
che conta, e però è elusa, deve concernere il da fare, le alternative da
tentare, perché l'Unione funzioni e ritrovi l'idea originaria di una comunità
di cittadini padrona di sé. Come l'Italia del dopo-voto, l'Europa è prigioniera
di quella che gli inglesi chiamano politics (il gioco fra partiti, poteri) ed è
impreparata alla policy, alla scelta fra molte opzioni di una linea: in
economia, nella ridefinizione della statualità, anche in politica estera.
Il caso dei marò è stato rivelatore. Un governo d'Europa ha mostrato di non
sapere cosa sia l'India, oggi: con i suoi tribunali, con una democrazia più che
sessantenne. Ha reagito come la vecchia Europa colonialista, giocando a birilli
con Nuova Delhi come Chamberlain quando disse dei cecoslovacchi invasi da
Hitler: "È una nazione lontana di cui non sappiamo nulla". Così
enorme è la svista, che l'esercito si ribella al timone politico. È bene che il
ministro Terzi si sia dimesso. Lo stesso dovrebbe fare il capo di stato
maggiore della Difesa, Luigi Binelli Mantelli: con inaudita prevaricazione,
forte probabilmente dell'appoggio di Terzi, ha preteso sabato che "la
farsa si concluda quanto prima, e i nostri fucilieri, funzionari in servizio di
Stato, siano al più presto riconsegnati alla giurisdizione italiana".
Nessun accenno al fatto che i marò sono pur sempre accusati d'aver ucciso due
marinai indiani scambiati per pirati, e che all'India fu promesso di non
tenerli in Italia.
È uno dei tanti casi di insipienza dei sovrani europei. L'Unione sta nel mondo
con una propria moneta, ma solo con questa. Ha ricette economiche distruttive,
e fuori casa oscilla tra annosi riflessi coloniali, dipendenza dagli Usa,
fedeltà a una Nato che fa e prolunga guerre che gli Europei non decidono né
discutono. Nel Mediterraneo, il nostro mare, non siamo udibili. Di altro si
dibatte: Sei in Europa, o fuori? Mai vi fu, se non alla fine dell'impero
romano, routine mentale più sterile.
Da questa paralisi si esce riconoscendo che il posto di comando è vacante,
tutto sta a pronunciare il dimittis che prepara il nuovo. Non sarà facile, ma
chi ha detto che debba esser facile edificare nuovi ordini politici, o
spirituali. Chi ha detto che la soluzione sia quella impartita dai sovietici:
chiudersi e farsi ghiaccio, per poi ricominciare come se nulla fosse le
abitudini di ieri.
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