da: la Repubblica
Alitalia
a un passo dalla svendita flop del piano Berlusconi-Passera costato 6 miliardi
agli italiani
I
francesi potrebbero pagare soltanto 150 milioni
di Federico
Fubini
«Perché falliscono le nazioni» è un saggio
degli economisti Daron Acemoglu e James Robinson, ma si adatterebbe bene anche
come sottotitolo alla vicenda Alitalia. Acemoglu e Robinson sostengono che un
paese arretra nel sottosviluppo quando le sue élite si coalizzano per difendere
dei privilegi a danno della collettività.
La vicenda della nuova Alitalia è il
capitolo che possono aggiungere alla prossima edizione. Avrebbe molti
protagonisti notevoli per ciò che hanno fatto o che hanno omesso: l’allora
presidente dell’Antitrust e oggi viceministro dello Sviluppo Antonio Catricalà,
l’altro ex presidente dell’Autorità della concorrenza Giuseppe Tesauro, quello
attuale Giovanni Pitruzzella, il vicepresidente della Commissione europea
Antonio Tajani, oltre al regista industriale dell’operazione Corrado Passera e
all’ex premier Silvio Berlusconi. Non senza il supporto, involontario ma
prezioso, della Cgil. Il tutto per un costo di circa sei miliardi a carico dei
contribuenti e vasto anche per i consumatori.
Non era destino che dovesse finire così.
Quando il 19 marzo del 2008 atterra a Roma Jean-Cyrille Spinetta, allora numero
uno di Air France, per Alitalia si presentano buone notizie. La compagnia è
alle soglie del fallimento, disertata dalla clientela, ma Spinetta rilancia:
Air France è disposta a comprare Alitalia dal Tesoro per una somma fra 2,5 e 3
miliardi di euro, in più si accolla i tre miliardi di euro dei suoi debiti e si
impegna a investirne altri sei in dieci anni. Un’operazione da circa sei
miliardi a beneficio delle casse dello Stato (circa le manovre Iva più Imu di
un anno), più altri sei in sviluppo futuro.
Non se ne farà di niente. La Cgil in Alitalia osteggia la fusione e Berlusconi sposta l’ago della bilancia puntando la campagna elettorale di allora sull’«italianità » della compagnia. Oggi tutti i protagonisti di allora sono costretti a sperare che la stessa Air France prenda il controllo di Alitalia con appena 150 milioni: venti volte meno del prezzo rifiutato cinque anni fa. Ma questa è solo una parte della beffa, poi arrivano gli altri oneri.
Il più immediato ricade ancora una volta sui contribuenti. Nell’estate 2008 infatti il governo Berlusconi favorisce una cordata di investitori privati italiani nella compagnia, spostando i tre miliardi di debiti di Alitalia su una nuova bad company sotto il controllo del Tesoro. Cioè a carico dei cittadini. Inoltre, ottomila dipendenti vengono messi in mobilità, ancora una volta a carico dello Stato, e undicimila restano. La cordata italiana - guidata da Passera con banca Intesa Sanpaolo, e con dentro la Immsi di Roberto Colaninno, e nomi noti come i Riva, i Benetton, Marco Tronchetti Provera, i Marcegaglia, Acqua Marcia di Bellavista Caltagirone, i Ligresti o i Marcegaglia - potrà dunque spendere circa un miliardo (un terzo di quanto offriva Air France) per raccogliere un’azienda ristrutturata e senza debiti.
Qui sorge il primo problema perché, accollando ai cittadini i debiti della vecchia Alitalia, di fatto il governo concede alla cordata italiana un aiuto di Stato. Una violazione della parità di condizioni fra concorrenti. Meridiana e Ryanair presentano ricorso alla Commissione europea, ma sono sfortunati: il responsabile dei Trasporti all’epoca è Antonio Tajani, ex portavoce di Berlusconi, cioè del padre dell’operazione nuova Alitalia. «A Bruxelles ci presero a pesci in faccia », ricorda ora l’esperto di Antitrust e all’epoca consulente di Meridiana Roberto Pardolesi.
Non sarà la sola volta in cui la nuova Alitalia sfugge alle regole di un mercato uguale per tutti. L’operazione italiana infatti si fa attraverso la fusione della prima e della secondo compagnia del paese, Alitalia e AirOne. In Grecia una fusione tra la numero uno e la numero due fu vietata da Bruxelles, ma questa volta l’Antitrust europeo ignora la questione. Alitalia e AirOne così conquistano il monopolio sulla tratta più redditizia d’Europa, Linate-
Fiumicino, e una posizione dominante su molti voli da Linate verso Napoli, Catania e Palermo. Una violazione impossibile da ignorare, se non venisse in soccorso una legge ad hoc: il decreto legge 134 dell’autunno 2008 che chirurgicamente sospende per tre anni le norme di concorrenza per le «aziende di servizi pubblici essenziali» nate da fusioni «entro il 30 giugno 2009». Manca solo che indichino la statura dell’ammini-stratore delegato. Catricalà, allora presidente dell’Antitrust, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Monti, non applica neanche i calmieri ai prezzi che pure potrebbe ancora imporre. La Linate-Fiumicino diventa la tratta più costosa d’Europa, seguita a ruota dalle rotte per il Mezzogiorno.
I contribuenti avevano già pagato prima, i consumatori pagano ora, ma i concorrenti di Alitalia non si arrendono: parte un ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio contro quell’esenzione dalle norme di libera concorrenza e il Tar del Lazio lo rimanda alla Corte costituzionale. Qui relatore sulla questione è Giuseppe Tesauro, ex capo dell’Antitrust in Italia. Si tratta di un’altra circostanza sfortunata, per via di un incrocio di carriere: all’Antitrust per anni Tesauro ha tenuto come capo di gabinetto Rita Ciccone, oggi numero tre della nuova Alitalia. Ma Tesauro non rinuncia a trattare il caso e emette una sentenza che conferma l’esenzione di Alitalia dalle regole di concorrenza in nome dell’«interesse pubblico». Anche Pitruzzella, capo attuale dell’Antitrust, scaduti i tre anni di esenzione farà giusto il minimo per scalfire il monopo-lio: nessuna nuova misura sulle tratte Linate-meridione. Forse non ha capito neanche lui cosa sia questo «interesse pubblico» di cui parla la Consulta.
Non se ne farà di niente. La Cgil in Alitalia osteggia la fusione e Berlusconi sposta l’ago della bilancia puntando la campagna elettorale di allora sull’«italianità » della compagnia. Oggi tutti i protagonisti di allora sono costretti a sperare che la stessa Air France prenda il controllo di Alitalia con appena 150 milioni: venti volte meno del prezzo rifiutato cinque anni fa. Ma questa è solo una parte della beffa, poi arrivano gli altri oneri.
Il più immediato ricade ancora una volta sui contribuenti. Nell’estate 2008 infatti il governo Berlusconi favorisce una cordata di investitori privati italiani nella compagnia, spostando i tre miliardi di debiti di Alitalia su una nuova bad company sotto il controllo del Tesoro. Cioè a carico dei cittadini. Inoltre, ottomila dipendenti vengono messi in mobilità, ancora una volta a carico dello Stato, e undicimila restano. La cordata italiana - guidata da Passera con banca Intesa Sanpaolo, e con dentro la Immsi di Roberto Colaninno, e nomi noti come i Riva, i Benetton, Marco Tronchetti Provera, i Marcegaglia, Acqua Marcia di Bellavista Caltagirone, i Ligresti o i Marcegaglia - potrà dunque spendere circa un miliardo (un terzo di quanto offriva Air France) per raccogliere un’azienda ristrutturata e senza debiti.
Qui sorge il primo problema perché, accollando ai cittadini i debiti della vecchia Alitalia, di fatto il governo concede alla cordata italiana un aiuto di Stato. Una violazione della parità di condizioni fra concorrenti. Meridiana e Ryanair presentano ricorso alla Commissione europea, ma sono sfortunati: il responsabile dei Trasporti all’epoca è Antonio Tajani, ex portavoce di Berlusconi, cioè del padre dell’operazione nuova Alitalia. «A Bruxelles ci presero a pesci in faccia », ricorda ora l’esperto di Antitrust e all’epoca consulente di Meridiana Roberto Pardolesi.
Non sarà la sola volta in cui la nuova Alitalia sfugge alle regole di un mercato uguale per tutti. L’operazione italiana infatti si fa attraverso la fusione della prima e della secondo compagnia del paese, Alitalia e AirOne. In Grecia una fusione tra la numero uno e la numero due fu vietata da Bruxelles, ma questa volta l’Antitrust europeo ignora la questione. Alitalia e AirOne così conquistano il monopolio sulla tratta più redditizia d’Europa, Linate-
Fiumicino, e una posizione dominante su molti voli da Linate verso Napoli, Catania e Palermo. Una violazione impossibile da ignorare, se non venisse in soccorso una legge ad hoc: il decreto legge 134 dell’autunno 2008 che chirurgicamente sospende per tre anni le norme di concorrenza per le «aziende di servizi pubblici essenziali» nate da fusioni «entro il 30 giugno 2009». Manca solo che indichino la statura dell’ammini-stratore delegato. Catricalà, allora presidente dell’Antitrust, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Mario Monti, non applica neanche i calmieri ai prezzi che pure potrebbe ancora imporre. La Linate-Fiumicino diventa la tratta più costosa d’Europa, seguita a ruota dalle rotte per il Mezzogiorno.
I contribuenti avevano già pagato prima, i consumatori pagano ora, ma i concorrenti di Alitalia non si arrendono: parte un ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio contro quell’esenzione dalle norme di libera concorrenza e il Tar del Lazio lo rimanda alla Corte costituzionale. Qui relatore sulla questione è Giuseppe Tesauro, ex capo dell’Antitrust in Italia. Si tratta di un’altra circostanza sfortunata, per via di un incrocio di carriere: all’Antitrust per anni Tesauro ha tenuto come capo di gabinetto Rita Ciccone, oggi numero tre della nuova Alitalia. Ma Tesauro non rinuncia a trattare il caso e emette una sentenza che conferma l’esenzione di Alitalia dalle regole di concorrenza in nome dell’«interesse pubblico». Anche Pitruzzella, capo attuale dell’Antitrust, scaduti i tre anni di esenzione farà giusto il minimo per scalfire il monopo-lio: nessuna nuova misura sulle tratte Linate-meridione. Forse non ha capito neanche lui cosa sia questo «interesse pubblico» di cui parla la Consulta.
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