da: Il Fatto Quotidiano
Sembrava politica, all’inizio, la questione
siriana, con i pesi e i contrappesi della responsabilità del leader e della
moralità di un presidente “che non è stato eletto per la guerra” (parole sue) e
che porta il peso di Premio Nobel per la pace. Sembrava politica, quando Barack
Obama vedeva la necessità di un intervento, cercava di capire quale, esplorava
il sostegno dei suoi cittadini, valutava i “sì” e i “no” dei suoi alleati
tradizionali. E scrutava la Russia di Putin con lo sguardo ampio di chi per mestiere
e vocazione (non della persona, del presidente) ha la responsabilità del mondo,
scrutando il debutto del nuovo, unico concorrente, dopo la fine dell’impero
sovietico. Era già abbastanza difficile la politica. Gli americani apparivano e
appaiono riluttanti e in prevalenza(oltre il 60 per cento) contrari a un altro
intervento militare americano nel mondo. Obama – come tutti gli esperti e i
politologi americani – cerca di capire se si tratta di un mutamento di
sentimenti verso la guerra dei suoi concittadini, o di un nuovo isolazionismo,
o dell’ansia di non perdere l’occasione di una vita un po’ migliore per tutti,
proprio ora che negli Usa torna a dilatarsi il respiro economico. Il
Congresso aveva dato, e sta dando, segni di opposizione, in parte perché i
membri del Congresso sentono i messaggi contrari dei loro elettori, in parte
per una resistenza tradizionale del potere legislativo, che non vuole
cedere,
senza ragioni di urgenza o pericolo per gli Usa, il potere di fare guerra al
presidente. Anche il confronto-scontro con i media (giornali,televisioni e
rete) stava dicendo al presidente, “non eletto per fare la guerra”, che si era
creata intorno a lui una atmosfera mista di indifferenza, neo isolazionismo e
contrarietà alla guerra sia di tipo strategico sia di sentimento morale. E
tutto ciò stava trattenendo Obama su un difficile terreno di
contraddizioni e di effetti incrociati che il linguaggio colloquiale
americano descrive con l’espressione “damned if you do, damned if you don’t”
(sbagli se lo fai, sbagli se non lo fai).
Ho detto che tutto ciò sembrava politica,
nella sua versione di intrico quasi senza uscita. Perché gli ingredienti erano
due volte di natura morale (si può far finta di non vedere i bambini uccisi dal
gas? Si possono usare, sia pure per tempi limitati e su obiettivi mirati, armi
micidiali che puniscono i morti e la distruzione con altri morti e altra
distruzione?), e due volte legate alla figura del presidente. Il comandante in
capo deve prendersi la responsabilità di guidare rispondendo misura per misura
al grande delitto. Il presidente “eletto per non fare la guerra” non può
dimenticare la sua promessa di pace. Il G20 è sembrato stringere piuttosto che
allentare il nodo delle mosse forzate, delle contrapposizioni inevitabili, del
faccia a faccia del presidente di pace con la guerra. Invece è accaduta
qualche altra cosa. E quello che sembrava un segmento delicato e difficilissimo
di storia politica, ci appare adesso come la trama di un thriller. Infatti
– si apprende con un po’ di ritardo non ancora spiegato – Putin ha lasciato sul
tavolo una carta, con una mossa che sul momento nessuno sembrava avere notato,
tranne l’altro personaggio primario, Obama. La proposta è di quelle che non si
possono rifiutare: Assad consegna le armi chimiche, ispettori sicuri ( l’Onu?)
le custodiscono sul posto, vengono gradatamente create condizioni per finire la
guerra, nessuna discussione per ora sul destino del regime di Assad. Come se
non bastasse Vladimir Putin si è preso il gusto di scrivere al “New York Times”
per far sapere come stanno le cose, secondo lui. Un abile e riuscito gesto di
propaganda, in cui Putin appare protagonista unico. Eppure ciò che sta
accadendo, e che potrà accadere, dipende dalla prima deprecata decisione di
Obama: la minaccia militare alla Siria. La mossa è grande per Putin: diventa
attore protagonista (era solo un ostacolo alla politica americana); ha in mano
la nuova mansuetudine di Assad; apre la porta a un vero ruolo dell’Onu per cui
non ci saranno veti; evita la continuazione di spaventosi
combattimenti con provati crimini di una parte e dell’altra; blocca la
frantumazione del Paese Siria; Assad obbedisce ma, delitti o non delitti, non
deve pagare, salvo una dura ma generica sgridata del segretario generale
dell’Onu.
Vuol dire buone prospettive di salvarsi con
un immenso debito verso un forte protettore. Il protettore,però,ha ridisegnato
a zig zag una nuova linea di confronto fra la Russia e la parte americana del
mondo, lasciando al nuovo gruppo di Paesi astensionisti, tra cui l’Italia, il
conforto di non avere voce in capitolo. La trama è complessa, perché Putin
porta pace, protegge una sponda di guerra, evita distruzione, e conquista
terreno come benefattore ma anche come abile operatore (non tutto è in chiaro
sulle intenzioni e sui fini) e come leader. Il gioco è montato in modo che ogni
pezzo può essere cambiato dalla Russia (solo dalla Russia, che ha preso
l’iniziativa) a seconda delle risposte che le altre parti offriranno di
volta in volta. L’America è liberata dal peso di guidare (forse da sola) la
pesantissima punizione militare del delitto. Ma diventa “una parte” non “la
parte” contrapposta del gioco. Se Obama rifiuta, sceglie da solo la guerra (che
sta ancora negoziando con il suo Congresso). Se Obama accetta rientra a buon
titolo nei ranghi della pace (che però è pace fatta da altri), ma non nel ruolo
di leader del mondo. Come in un buon thriller destinato ad avere un seguito,
qualcosa resta in sospeso: perché la Siria aveva depositi, quanto pare non
piccoli, di gas nervino, arma terribile vietata da ogni convenzione
internazionale? Perché lo ammette senza esporsi a conseguenze, e con la
collaborazione dell’Onu, che custodirà l’arsenale (non si è parlato di
distruggerlo)? Perché non deve più dimostrare di non avere usate o fatto
usare quelle armi? Come si dice parlando di un thriller, non vi racconterò la
fine. Non lo farò perché non la conosco. Qui, oggi, posso solo scrivere (con
molta ansia): “Continua”.
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