da: Il Venerdì di
Repubblica
Mika: l’Italia ha l’X Factor ma devo solo capire dove
di Elena Martelli
Sul pratone da
Woodstock nordica dello Slane Castle, il cosiddetto castello della musica a
un’ora da Dublino, hanno suonato tutti: dai Rolling Stones a Madonna. Qualche
giorno fa, sotto un cielo da Cime
Tempestose, vi hanno cantato –
chissà se nelle stesse sale in cui gli U2 incisero Unforgettable Fire – anche un gruppo di finalisti dell’ultima tappa
delle selezioni X Factor. Non sapevano che li avrebbe giudicati il principesco
Mika e che, una volta selezionato il gruppo, ne sarebbe diventato il
caposquadra. Il cantante anglo-libanese delle tante hit, da We are Golden a Relax, da Grace Kelly a Love Today e Take it Easy, è il nuovo acquisto del programma, che parte il 26
settembre su SkyUno.
Momenti topici, dunque, per chi ama la tv pop, resi ancor
più memorabili dal fattore Mika, x factor nell’X Factor: sarà il quarto giudice
accanto a Simona Ventura, Elio e
Morgan ed è la prima volta che una star internazionale partecipa a un talent
show italiano. E quasi a sottolineare l’evento, quando, finalmente, Mika entra
in scena – sottile come un giunco, lungo come un lord, in giacca beige,
pantaloni slim e scarpe Louboutin (sono molto amici, lui e lo stilista) – le
nuvole nere scatenano un potente acquazzone. Che non scalfisce la sua grazia
olimpica: sembra nato per non perdere mai il controllo, il cantante. Sono
agitati invece i concorrenti, quando si esibiscono davanti a lui, mentre nella
sala accanto, che un’intricata follia di cavi e monitor trasforma in regia,
siede la madre. Imperiosa, nel suo kaftano fucsia, osserva tutto attentamente,
restando impenetrabile.
«Mi piace il pop
alternativo. Non voglio persone carine né facili. Voglio originalità» riflette
lui in italiano, a favore di telecamera, mentre valuta le performance dei cantanti.
Poi, sul pratone, si registra il momento della scelta.
«Lo stile è interessante
ma ho paura che sia più forte della musica. L’originalità conta ma in tv è una
bestia strana Perché con un look sofisticato è più difficile far capire che si
è sinceri» dice andando sotto braccio a uno di loro, giocando con quei giudizi
negativi che poi porteranno a un sì. Un nuovo Don Lurio, intanto, avanza in tv
ma solo per l’accento anglosassone. Perché il portamento di Mika è quello di un
aristocratico di campagna, eccentrico, alla mano e gentile. «Una delle ragioni
che mi ha spinto ad accettare X Factor
è che volevo imparare l’italiano e ovviamente mi piace questo show da cui sono
usciti cantanti come Mengoni e Chiara, che ora hanno una carriera seria»,
racconta in una pausa delle riprese.
«Queste sfide fanno
parte del mio carattere. Come lo fu quando lasciai il Royal College of Music di
Londra perché avevo inciso nel frattempo una canzone. Ma io ho costantemente
bisogno di rompere le regole. E poi quest’ultima avventura mi dà l’occasione di
immergermi in una nuova cultura, di aprirmi a un nuovo mondo. Tutto materiale
che può ispirarmi».
Come il viaggio fatto
tra Filippine e Nepal dove ha scritto Live
your Life, il suo nuovo singolo, già numero uno in diversi Paesi fra cui
Corea e Spagna. Mika parla inglese, francese, spagnolo e capisce l’arabo, per
via della madre libanese («Ho anche studiato il cinese ma era un vero casino»).
Conoscere una lingua, prosegue «aiuta a incrementare il proprio senso di
consapevolezza. Qualcuno colleziona francobolli, altri quadri o costosi
gioielli, io cultura. Cosa c’è di meglio che imparare una lingua nuova per
farlo? Sono ossessionato, ora, dalla musica italiana (intanto canticchia Non sono una signora e cita De Andrè) ma
anche dal vostro cinema».
L’ha impressionato lo
humor de Il divo di Sorrentino. «E’ un
misto di sottigliezza e crudeltà. Anch’io tendo ad avere uno sguardo diabolico
e affilato sulle cose che scrivo, come nelle canzoni di The Origin of Love, quando parlo di razzismo e religione. L’assurdo
è una chiave per far capire alla gente il concetto di tolleranza. Con i miei
testi dico cose serie, ma la mia musica è gioiosa. Per questo, ti ritrovi a
ballare le mie canzoni prima ancora di capire su che parole stai ballando».
Il sotto testo è che
si può essere arrabbiati e pop allo stesso tempo. «Sono come una tartaruga. La
mia è una ribellione gentile. Ribelle per me significa essere fuori dai cliché.
Quando ero al college, e citavo Kurt Weill, gli altri mi guardavano male. Erano
snob. Così come le band indie di Camden che andavo a sentire. Erano entrambi
mondi chiusi, che vivevano di schemi. Io no. Perché sono sempre stato un
outsider, fin dalla scuola dove certo non ero cool, né popolare: i bulli mi mettevano sotto e per lungo tempo ho
avuto paura di camminare nel cortile, sotto lo sguardo degli altri. Per due
anni non ho parlato. Sapevo, però, che con la musica avrei potuto combattere in
un altro modo, ribellarmi per imparare a non aver più paura di me stesso». E in questo, la madre, che lo segue ovunque,
ha giocato un ruolo decisivo. «Ha capito rapidamente che sarei potuto essere un
vero casino o avrei potuto fare qualcosa di interessante. Essendo in una
situazione pericolosa, si è assunta il rischio di togliermi da scuola, di
portarmi al parco, di capire che la musica poteva diventare una professione.
Quando inizi a lavorare come me a 11 anni, il percorso che fai non è romantico
ma duro. Molto duro, devi dare il meglio, il fallimento è sempre possibile. Ma
sono grato per quello che ha fatto per me».
Finora cosa lo ha
colpito più dell’Italia? «Le sottolineature sessiste nei confronti della donna,
mi suonano strane. In Italia la donna viene ancora molto discriminata. E
all’uomo permettete di rimanere bambino più a lungo che negli altri Paesi». Poi
c’è la politica, «un rompicapo da capire, per chi è straniero. Come la stessa
storia di Berlusconi. L’unica cosa più misteriosa della vostra politica è forse
la situazione attuale dell’Egitto. Siete un Paese di contrasti, intolleranze e
assurdità anche perché siete profondamente conservatori». Lui vota negli States
e «ovviamente democratico. Ma odio gli estremismi. E non mi piacciono la
champagne lefty. Quando si parla di
politica, si devono prendere in considerazioni le basi del vivere. Che sono:
portafoglio, religione ed etica. E credo profondamente negli investimenti
pubblicitari nell’arte». E’ stato di recente alla Biennale di Venezia: «Per
gran parte molto notevole. E’ il punto più alto in cui si incontrano arte e
politica. Ma odio quella gente. Gli stessi che vedi ad Art Basel, a Frieze. Gli
stessi manipolatori che fissano il prezzo, gli stessi collezionisti che
guardano ai loro investimenti. Il processo di fare arte, che è fragile e
intimo, è l’ultima cosa che vedi in quelle situazioni. E’ quella che io chiamo
la maledizione del cool».
Orrore. «Cool è tutto ciò che è controllato,
forzato, falso, pianificato. I miei eroi della vita non sono cool. Penso a Cocteau. Agli scrittori
che amo, come Margaret Atwood o Angela Carter». Gli ricordo che, in Italia
certi snob guardano al mondo dei talent ancora con sospetto. «Fanno parte della
cultura pop, come Sanremo del resto. E del sistema dell’entertainment business.
E’ arte? No. Qualcuno può diventare artista? Certo. E gli artisti possono
diventare parte del sistema dell’entertainment? Certo. Le due cose si sovrappongono.
E’ una perdita di energia malignare sui talent».
Più interessante è
invece vedere «quel processo di trasformazione, un’alchimia inspiegabile che
per comodità definiamo xfactor, che fa sì che una persona diventi una star.
Nelle star proiettiamo il nostro desiderio di amare, per quanto ne abbiamo
bisogno. Stare qui è come vedere il momento preciso in cui la roccia diventa
oro. Qualche volta accade, ma non molto spesso».
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