martedì 10 settembre 2013

X Factor 7, Mika: alla scoperta del “mistero” Italia


da: Il Venerdì di Repubblica

Mika: l’Italia ha l’X Factor ma devo solo capire dove
di Elena Martelli 


Sul pratone da Woodstock nordica dello Slane Castle, il cosiddetto castello della musica a un’ora da Dublino, hanno suonato tutti: dai Rolling Stones a Madonna. Qualche giorno fa, sotto un cielo da Cime Tempestose,  vi hanno cantato – chissà se nelle stesse sale in cui gli U2 incisero Unforgettable Fire – anche un gruppo di finalisti dell’ultima tappa delle selezioni X Factor. Non sapevano che li avrebbe giudicati il principesco Mika e che, una volta selezionato il gruppo, ne sarebbe diventato il caposquadra. Il cantante anglo-libanese delle tante hit, da We are Golden a Relax, da Grace Kelly a Love Today e Take it Easy, è il nuovo acquisto del programma, che parte il 26 settembre su SkyUno.
Momenti topici, dunque, per chi ama la tv pop, resi ancor più memorabili dal fattore Mika, x factor nell’X Factor: sarà il quarto giudice  accanto a Simona Ventura, Elio e Morgan ed è la prima volta che una star internazionale partecipa a un talent show italiano. E quasi a sottolineare l’evento, quando, finalmente, Mika entra in scena – sottile come un giunco, lungo come un lord, in giacca beige, pantaloni slim e scarpe Louboutin (sono molto amici, lui e lo stilista) – le nuvole nere scatenano un potente acquazzone. Che non scalfisce la sua grazia olimpica: sembra nato per non perdere mai il controllo, il cantante. Sono agitati invece i concorrenti, quando si esibiscono davanti a lui, mentre nella sala accanto, che un’intricata follia di cavi e monitor trasforma in regia, siede la madre. Imperiosa, nel suo kaftano fucsia, osserva tutto attentamente, restando impenetrabile.
«Mi piace il pop alternativo. Non voglio persone carine né facili. Voglio originalità» riflette lui in italiano, a favore di telecamera, mentre valuta le performance dei cantanti. Poi, sul pratone, si registra il momento della scelta.
«Lo stile è interessante ma ho paura che sia più forte della musica. L’originalità conta ma in tv è una bestia strana Perché con un look sofisticato è più difficile far capire che si è sinceri» dice andando sotto braccio a uno di loro, giocando con quei giudizi negativi che poi porteranno a un sì. Un nuovo Don Lurio, intanto, avanza in tv ma solo per l’accento anglosassone. Perché il portamento di Mika è quello di un aristocratico di campagna, eccentrico, alla mano e gentile. «Una delle ragioni che mi ha spinto ad accettare X Factor è che volevo imparare l’italiano e ovviamente mi piace questo show da cui sono usciti cantanti come Mengoni e Chiara, che ora hanno una carriera seria», racconta in una pausa delle riprese.
«Queste sfide fanno parte del mio carattere. Come lo fu quando lasciai il Royal College of Music di Londra perché avevo inciso nel frattempo una canzone. Ma io ho costantemente bisogno di rompere le regole. E poi quest’ultima avventura mi dà l’occasione di immergermi in una nuova cultura, di aprirmi a un nuovo mondo. Tutto materiale che può ispirarmi».
Come il viaggio fatto tra Filippine e Nepal dove ha scritto Live your Life, il suo nuovo singolo, già numero uno in diversi Paesi fra cui Corea e Spagna. Mika parla inglese, francese, spagnolo e capisce l’arabo, per via della madre libanese («Ho anche studiato il cinese ma era un vero casino»). Conoscere una lingua, prosegue «aiuta a incrementare il proprio senso di consapevolezza. Qualcuno colleziona francobolli, altri quadri o costosi gioielli, io cultura. Cosa c’è di meglio che imparare una lingua nuova per farlo? Sono ossessionato, ora, dalla musica italiana (intanto canticchia Non sono una signora e cita De Andrè) ma anche dal vostro cinema».
L’ha impressionato lo humor de Il divo di Sorrentino. «E’ un misto di sottigliezza e crudeltà. Anch’io tendo ad avere uno sguardo diabolico e affilato sulle cose che scrivo, come nelle canzoni di The Origin of Love, quando parlo di razzismo e religione. L’assurdo è una chiave per far capire alla gente il concetto di tolleranza. Con i miei testi dico cose serie, ma la mia musica è gioiosa. Per questo, ti ritrovi a ballare le mie canzoni prima ancora di capire su che parole stai ballando».
Il sotto testo è che si può essere arrabbiati e pop allo stesso tempo. «Sono come una tartaruga. La mia è una ribellione gentile. Ribelle per me significa essere fuori dai cliché. Quando ero al college, e citavo Kurt Weill, gli altri mi guardavano male. Erano snob. Così come le band indie di Camden che andavo a sentire. Erano entrambi mondi chiusi, che vivevano di schemi. Io no. Perché sono sempre stato un outsider, fin dalla scuola dove certo non ero cool, né popolare: i bulli mi mettevano sotto e per lungo tempo ho avuto paura di camminare nel cortile, sotto lo sguardo degli altri. Per due anni non ho parlato. Sapevo, però, che con la musica avrei potuto combattere in un altro modo, ribellarmi per imparare a non aver più paura di me stesso».  E in questo, la madre, che lo segue ovunque, ha giocato un ruolo decisivo. «Ha capito rapidamente che sarei potuto essere un vero casino o avrei potuto fare qualcosa di interessante. Essendo in una situazione pericolosa, si è assunta il rischio di togliermi da scuola, di portarmi al parco, di capire che la musica poteva diventare una professione. Quando inizi a lavorare come me a 11 anni, il percorso che fai non è romantico ma duro. Molto duro, devi dare il meglio, il fallimento è sempre possibile. Ma sono grato per quello che ha fatto per me».
Finora cosa lo ha colpito più dell’Italia? «Le sottolineature sessiste nei confronti della donna, mi suonano strane. In Italia la donna viene ancora molto discriminata. E all’uomo permettete di rimanere bambino più a lungo che negli altri Paesi». Poi c’è la politica, «un rompicapo da capire, per chi è straniero. Come la stessa storia di Berlusconi. L’unica cosa più misteriosa della vostra politica è forse la situazione attuale dell’Egitto. Siete un Paese di contrasti, intolleranze e assurdità anche perché siete profondamente conservatori». Lui vota negli States e «ovviamente democratico. Ma odio gli estremismi. E non mi piacciono la champagne lefty. Quando si parla di politica, si devono prendere in considerazioni le basi del vivere. Che sono: portafoglio, religione ed etica. E credo profondamente negli investimenti pubblicitari nell’arte». E’ stato di recente alla Biennale di Venezia: «Per gran parte molto notevole. E’ il punto più alto in cui si incontrano arte e politica. Ma odio quella gente. Gli stessi che vedi ad Art Basel, a Frieze. Gli stessi manipolatori che fissano il prezzo, gli stessi collezionisti che guardano ai loro investimenti. Il processo di fare arte, che è fragile e intimo, è l’ultima cosa che vedi in quelle situazioni. E’ quella che io chiamo la maledizione del cool».
Orrore. «Cool è tutto ciò che è controllato, forzato, falso, pianificato. I miei eroi della vita non sono cool. Penso a Cocteau. Agli scrittori che amo, come Margaret Atwood o Angela Carter». Gli ricordo che, in Italia certi snob guardano al mondo dei talent ancora con sospetto. «Fanno parte della cultura pop, come Sanremo del resto. E del sistema dell’entertainment business. E’ arte? No. Qualcuno può diventare artista? Certo. E gli artisti possono diventare parte del sistema dell’entertainment? Certo. Le due cose si sovrappongono. E’ una perdita di energia malignare sui talent».
Più interessante è invece vedere «quel processo di trasformazione, un’alchimia inspiegabile che per comodità definiamo xfactor, che fa sì che una persona diventi una star. Nelle star proiettiamo il nostro desiderio di amare, per quanto ne abbiamo bisogno. Stare qui è come vedere il momento preciso in cui la roccia diventa oro. Qualche volta accade, ma non molto spesso».

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