“Le scene dei dipendenti di Lehman che
cinque anni fa uscivano mestamente dal palazzo della banca, con gli scatoloni di
cartone in cui avevano messo in fretta e furia gli effetti personali,
illustrano il destino dei bancari, non
dei banchieri. In decine di migliaia persero il posto a Wall Street, ma i
capi anche quando hanno dovuto lasciare il posto hanno avuto trattamenti di
riguardo: super-liquidazioni coi «paracaduti d’oro» multi-milionari”.
da: la Repubblica
Che fine ha fatto Richard Fuld? Sta bene,
grazie. The Gorilla, così lo chiamavano per la sua aggressività. Dopo essere
stato un simbolo dell’arroganza di Wall Street, cinque anni fa il chief
executive di Lehman Brothers fu costretto a dichiarare bancarotta. Lunedì 15 settembre
2008 resta «una data segnata dall’infamia», come Roosevelt definì Pearl Harbor.
Davvero una Pearl Harbor economica: cinque anni fa si mise in moto la
concatenazione di catastrofi che hanno sprofondato l’America e l’Europa nella
più grave crisi dopo la Grande Depressione.
Se qualcuno pensa che Fuld abbia pagato
personalmente, deve ricredersi. L’ex numero uno di Lehman continua a fare
affari a Wall Street. A capo della sua
società Matrix Advisors, guadagna laute
commissioni dando agli investitori i suoi consigli sulle strategie per
arricchirsi, e perfino sulla «gestione del rischio». Le scene dei dipendenti di
Lehman che cinque anni fa uscivano mestamente dal palazzo della banca, con gli
scatoloni di cartone in cui avevano messo in fretta e furia gli effetti
personali, illustrano il destino dei bancari, non dei banchieri. In decine di
migliaia persero il posto a Wall Street, ma i capi anche quando hanno dovuto
lasciare il posto hanno avuto trattamenti di riguardo: super-liquidazioni coi
«paracaduti d’oro» multi-milionari.
C’è perfino chi ha guadagnato tanto dai
crac finanziari. John Paulson, capo di uno hedge fund, ha comprato degli attivi
di Lehman durante la procedura fallimentare, dai quali ha già ricavato un
miliardo di dollari di profitti. Non è andata così per la stragrande
maggioranza degli americani.
Un rapporto del Dipartimento del Tesoro, fa
il bilancio definitivo di quella crisi: 8,8 milioni di posti di lavoro perduti,
19.200 miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie distrutta. Un sondaggio Gallup
dà la misura del trauma anche psicologico: la maggioranza degli americani sono
convinti che un’Apocalisse finanziaria di quelle dimensioni può ripetersi e
distruggere i loro risparmi prima che loro raggiungano l’età della pensione. Il
magazine Time celebra il quinto anniversario con una copertina terribile: il
Toro della Borsa è in festa, il titolo dice «Come Wall Street ha vinto», il
sottotitolo è «cinque anni dopo il crac, tutto potrebbe succedere un’altra
volta». Perfino il Wall Street Journal, giornale conservatore, dedica la sua attenzione
ai perdenti. In prima pagina c’è una grande inchiesta sulla Lost Generation.
Non solo in Europa, anche in America i ventenni sono una Generazione Perduta.
Malgrado il tasso di disoccupazione giovanile sia solo un terzo o la metà
rispetto ai paesi più colpiti dell’eurozona come Spagna Grecia e Italia, il
Wall Street Journal osserva che i ventenni americani con un lavoro sono spesso
confinati su «un binario di serie B, senza prospettive di carriera, e vedono
sfumare per sempre la possibilità di
avvicinarsi in futuro ai livelli di benessere dei genitori».
Un’intera generazione, rivela l’inchiesta,
«sta rinunciando o rinviando sine die tutti i riti dell’età adulta: il
matrimonio, l’acquisto della casa, la nascita di un figlio».
Per capire la copertina di Time, «come Wall
Street ha vinto», bisogna risalire proprio al crac Lehman. Che sprofondò
l’establishment in un terrore da «contagio sistemico». E fu seguito da una
svolta repentina. Lo stesso ministro del Tesoro Hank Paulson (Amministrazione
Bush) che aveva lasciato fallire la banca di Fuld, 24 ore dopo decise un
salvataggio da 85 miliardi di dollari per il colosso assicurativo Aig. Nasceva
così la dottrina «too big to fail»: ci sono colossi finanziari troppo grandi
perché li si possa lasciare fallire (con il corollario del «too big to jail», nessun
megabanchiere è finito in carcere). 600 miliardi finirono nel fondo Tarp per i
salvataggi bancari. L’aspetto più pernicioso del «too big to fail», è
l’incentivo implicito che offre ai banchieri perché ricomincino ad assumere
rischi eccessivi. Tanto, se finisce male sarà il contribuente a pagare il
conto.
Dopo il Tarp, ebbe inizio l’èra segnata da
uno straordinario protagonismo delle banche centrali, con l’esperimento estremo
di politica monetaria condotto dalla regina fra loro: la Federal Reserve
americana. Un esperimento fatto di massicci acquisti di bond sui mercati, per
azzerare il costo del credito e inondare di liquidità l’economia. I rialzi
poderosi delle Borse mondiali, Wall Street in testa, sono strettamente legati a
questa terapia d’urto.
Che potrebbe finire questo mercoledì, con
l’atteso annuncio del ridimensionamento graduale degli acquisti della Fed.
Quell’annuncio sancirebbe la conclusione ufficiale di un quinquennio drammatico.
Ma riaprirà la battaglia sulle lezioni che bisogna imparare dalla crisi.
L’appuntamento cruciale è la nomina del
successore di Ben Bernanke alla guida della Fed. Le polemiche furiose — e
inusuali — sui due candidati di Barack Obama, vanno al cuore del dibattito
sulla crisi. Chi si oppone a Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill
Clinton, lo fa perché ricorda il suo ruolo nella deregulation finanziaria. Chi
appoggia Janet Yellen non è mosso solo da «femminismo », ma vuole una donna che
ha mostrato di non essere complice né succube dei grandi vincitori di questo
quinquennio: i banchieri.
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