Una “moda” scoppiata
in questa estate 2013 è quella di alcuni imprenditori (?!) che, in quattro e
quattr’otto, nel silenzio delle assenze vacanziere, smantellano le aziende trasferendo
gli impianti in altri paesi. E’ il caso di tale Fabrizio Pedroni, imprenditore
di Firem srl con sede a Formigine, provincia di Modena.
Ha chiuso l’azienda
per ferie e, durante una notte, ha iniziato a smantellare la sua azienda che
produce componenti elettrici per trasferirli all’estero. Nuova sede: Polonia.
Scoperta la “fuga” dai
dipendenti, l’imprenditore è finito in prima pagina. In un’intervista
rilasciata a Bloomberg, l’imprenditore ha dichiarato che la scelta era motivata
dalla necessità di far sopravvivere l’attività: in Italia non c’erano più le
condizioni per operare.
E’ chiaro a tutti
quale dev’essere il dramma vissuto dai lavoratori che si sono visti privati del
loro lavoro. E, in questo caso, non si tratta di perdere temporaneamente uno
stipendio sostituito da un assegno di cassa integrazione ma di veder sparire un
pezzo fondamentale di futuro.
Comprensibile la
rabbia, lo smarrimento, di questi lavoratori. Altrettanto comprensibile sarebbe
la voglia di ritrovarsi davanti questo presunto imprenditore e mazzolarlo.
E’ tutto
comprensibile. Chissà come reagiremmo noi in siffatta situazione. Ciò non di
meno, sono anni che aziende italiane, gestite da “acuti manager”, spostano
attività all’estero. Un nome a caso: Fiat.
E’ vero che si sentono
le grida dei sindacati e qualche immagine televisiva mostra i dipendenti
inferociti, ma la notizia scivola via dalle prime pagine velocemente dopo
essere stata attorniata da esternazioni di politici, economisti, in difesa della
scelta – secondo loro obbligata - praticata dagli incompresi “grandi manager” di aziende grandi (‘aziende
grandi’, non ‘grandi aziende’: invertendo l’ordine dell’aggettivo il senso
cambia).
Per quanto possano
esservi motivi seri per ritenere non più praticabile lo svolgere un’attività
imprenditoriale in Italia, gli imprenditori medio piccoli che organizzano certe
sorpresine ai loro dipendenti, svuotando le aziende mentre questi sono in
ferie, danno un indubbio senso di squallore.
Ma un po’ di decenza
dovrebbe evitare l’ipocrisia di mettere alla gogna i Pedroni e sostenere invece
i Marchionne. Entrambi, non sono imprenditori. Perché fare impresa in Italia è
cosa difficile e complessa stante la burocrazia che costringe una dipendenza totale
dalle lobby (commercialisti), ma senza un’adeguata capacità gestionale anche
una normativa semplificata e la sparizione delle lobby non impedirebbe a certi
imprenditori di darsi alla fuga. E le sorti di un’azienda non sono legate al
solo fattore costo del lavoro.
In Italia non esiste
un sistema imprenditoriale, esistono qua e là capaci imprenditori che si
scontrano quotidianamente con uno Stato inadempiente e oneroso. Ci sono. Sono
sparsi a macchia di leopardo. Ma non sono tanti e tali da fare un sistema
imprenditoriale capace di reggere, prima ancora che di crescere. E attribuire
tutte le colpe al sistema bancario non serve a capire il perché di una crisi e
come uscirne. Chi non ha progetti di ricerca e capacità nel definire piani
industriali a termine non può avere credito. Perché, per le banche, i
finanziamenti si tramuterebbero nel breve tempo in sofferenze.
E le banche non sono
enti di beneficienza. I soldi che danno (quando li danno) sono quelli dei
risparmiatori. Ma pare che agli italiani questo “particolare” sfugga…
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