da: Il Fatto Quotidiano
Terra
dei Fuochi, dove brucia anche l’agricoltura italiana
di Roberto
Burdese
E’ una storia lunga oltre 20 anni quella
della “trasformazione” nell’immaginario collettivo della Terra Felix in Terra
dei Fuochi. O dei Veleni. Quella protagonista dei titoli a quattro colonne in
queste ultime settimane, che rischia sempre più di trovarsi abitata da gente
che ha paura di mangiare i frutti dei propri campi, perché contaminati dalla
diossina e irrigati con acque provenienti da falde avvelenate dai rifiuti
tossici industriali del Nord quanto del Sud Italia “grazie” ai loschi accordi
imprenditoriali dei clan Casalesi.
Eppure se la Campania conserva toponimi
come Agropoli e Campagna, Vallata e Gragnano, Miglio d’Oro e Terra di Lavoro, è
perché, sin da tempi remoti, ha offerto sostentamento alimentare attraverso i
prodotti della propria terra e, con ciò, ricchezza. Ora, invece, come in un
contrappasso dantesco, essa viene ricordata solo per essere, in contesti
circoscritti, l’ultima meta di rifiuti tossici illecitamente sversati nei terreni
agricoli a danno di produttori e consumatori. La Fukushima italiana.
Ciò che spesso però non emerge dalle
cronache dei quotidiani e dei sempre più numerosi blog di denuncia è che a
essere a rischio in Campania è solo una piccola parte di territorio, meno del
5% dell’intera superficie regionale pari a meno dell’1% dei suoli agricoli
(secondo le analisi dell’Arpac e dell’Ispra). Non voglio certo dire che “va
tutto bene” e meno che mai ho in mente di condannare tout-court il sistema
dell’informazione: gli allarmismi
generalizzati, però, generano una
reazione che va sempre oltre i confini delle vicende e non di rado a
pagarne le conseguenze sono anche quelli che non c’entrano e che rischiano così
di perdere il lavoro di una vita. Capita, in Campania, a chi con le zone
incriminate non ha nulla a che fare ma risente, come per effetto di un’onda
lunga, del loro effetto negativo sulla propria economia di sussistenza. Basti
pensare ai produttori di Mozzarella di bufala campana Dop (500 milioni di euro
di giro d’affari) i quali sono le prime vittime di un sistema mediatico che
parla indistintamente di mozzarella alla diossina, senza fare nomi e cognomi
dei pochi soggetti coinvolti dall’inchiesta e gettando così tutti nello stesso
calderone. Oppure agli agricoltori di Giugliano, che rischiano di finire tutti
quanti all’indice nonostante ci siano analisi ufficiali che disegnano un quadro
molto più confortante.
E’ necessario garantire la sicurezza alimentare dei consumatori senza compromettere la sopravvivenza
economica dei tanti produttori agricoli esenti da ogni contaminazione. La
tragedia rischia di assumere proporzioni enormi se non troviamo questo
equilibrio: per effetto dell’azione criminale di chi ha avvelenato alcune di
queste terre, rischiamo di perdere quasi tutta l’agricoltura campana, con un
effetto domino dalle conseguenze catastrofiche sul paesaggio, sull’occupazione,
sull’economia in generale. La campagna pubblicitaria di Pomì è un campanello
d’allarme rivelatore di questi possibili scenari.
Le istituzioni hanno gli strumenti per
determinare con assoluta certezza le produzioni contaminate e le zone di
provenienza, allo stesso modo è possibile identificare le aree e le produzioni
che non presentano alcun rischio per le produzioni alimentari. In Campania ci
sono l’Arpac, l’Università “Federico II”, le Commissioni Ambiente e Agricoltura
della Regione che monitorano costantemente il territorio. Nel nostro piccolo,
abbiamo un Comitato tecnico-scientifico dei presidi Slow Food che, insieme ad
altri organismi preposti delle associazioni di categoria, si occupa delle
economie dei produttori e della salute dei co-produttori. Slow Food, che negli
anni ha attivato diversi presidi in quei territori, dal suo canto effettua
verifiche periodiche sulla salubrità di questi prodotti e, fino a oggi, i dati
sono del tutto tranquillizzanti. Prendendo ad esempio i presidi che ricadono
nell’area acerrano-pomiglianese e mariglianese, le prime analisi sono state
fatte a luglio e le abbiamo ripetute a settembre: in entrambi i casi, i dati ci
dicono che le produzioni non hanno problemi.
E arriviamo al punto dolente: che fare
invece con quei produttori che,
senza alcuna colpa, lavorano in terre
che saranno accertate come avvelenate? In attesa di possibili e auspicabili
operazioni di bonifiche, sarà necessario riconvertirli verso produzioni no food
e, se necessario, sostenerne il reddito. Come? Con i fondi per la diversificazione delle attività economiche in ambito
rurale, per i quali la Corte dei Conti dell’Unione europea non ha avuto
finora parole di encomio verso il nostro Paese. Tale azione punta ad affrontare
i problemi delle aree nelle quali sono presenti spopolamento, scarse
opportunità economiche e disoccupazione e
finanzia progetti a favore della popolazione e delle imprese rurali per
contribuire a sostenere la crescita, l’occupazione e lo sviluppo sostenibile.
Fondi comunitari, certo, ma non dimentichiamo che esistono anche i redditi dai
beni confiscati alle mafie che potrebbero essere destinati a tali azioni.
Salvare
l’agricoltura campana e occuparsi dei drammi della Terra dei
Fuochi non sono due vicende distinte. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di
affrontarle assieme e lo dobbiamo fare come sistema Paese. Quell’Italia che
mena giustamente vanto per il suo Made in Italy alimentare, che si sta
preparando a un Expo mondiale sul tema “Nutrire il Pianeta”, non può
permettersi di nascondere sotto il tappeto la situazione che sta vivendo la
Campania. Se muore anche la buona agricoltura campana, muore tanto di più. Sarà
una grande sconfitta per tutto il Paese. E la vittoria delle mafie, almeno in
quei territori, sarà definitiva e irreversibile.
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