martedì 5 novembre 2013

Terra dei fuochi: dove brucia anche l’agricoltura italiana

da: Il Fatto Quotidiano

Terra dei Fuochi, dove brucia anche l’agricoltura italiana
di Roberto Burdese

E’ una storia lunga oltre 20 anni quella della “trasformazione” nell’immaginario collettivo della Terra Felix in Terra dei Fuochi. O dei Veleni. Quella protagonista dei titoli a quattro colonne in queste ultime settimane, che rischia sempre più di trovarsi abitata da gente che ha paura di mangiare i frutti dei propri campi, perché contaminati dalla diossina e irrigati con acque provenienti da falde avvelenate dai rifiuti tossici industriali del Nord quanto del Sud Italia “grazie” ai loschi accordi imprenditoriali dei clan Casalesi.

Eppure se la Campania conserva toponimi come Agropoli e Campagna, Vallata e Gragnano, Miglio d’Oro e Terra di Lavoro, è perché, sin da tempi remoti, ha offerto sostentamento alimentare attraverso i prodotti della propria terra e, con ciò, ricchezza. Ora, invece, come in un contrappasso dantesco, essa viene ricordata solo per essere, in contesti circoscritti, l’ultima meta di rifiuti tossici illecitamente sversati nei terreni agricoli a danno di produttori e consumatori. La Fukushima italiana.


Ciò che spesso però non emerge dalle cronache dei quotidiani e dei sempre più numerosi blog di denuncia è che a essere a rischio in Campania è solo una piccola parte di territorio, meno del 5% dell’intera superficie regionale pari a meno dell’1% dei suoli agricoli (secondo le analisi dell’Arpac e dell’Ispra). Non voglio certo dire che “va tutto bene” e meno che mai ho in mente di condannare tout-court il sistema dell’informazione: gli allarmismi generalizzati, però, generano una reazione che va sempre oltre i confini delle vicende e non di rado a pagarne le conseguenze sono anche quelli che non c’entrano e che rischiano così di perdere il lavoro di una vita. Capita, in Campania, a chi con le zone incriminate non ha nulla a che fare ma risente, come per effetto di un’onda lunga, del loro effetto negativo sulla propria economia di sussistenza. Basti pensare ai produttori di Mozzarella di bufala campana Dop (500 milioni di euro di giro d’affari) i quali sono le prime vittime di un sistema mediatico che parla indistintamente di mozzarella alla diossina, senza fare nomi e cognomi dei pochi soggetti coinvolti dall’inchiesta e gettando così tutti nello stesso calderone. Oppure agli agricoltori di Giugliano, che rischiano di finire tutti quanti all’indice nonostante ci siano analisi ufficiali che disegnano un quadro molto più confortante.

E’ necessario garantire la sicurezza alimentare dei consumatori senza compromettere la sopravvivenza economica dei tanti produttori agricoli esenti da ogni contaminazione. La tragedia rischia di assumere proporzioni enormi se non troviamo questo equilibrio: per effetto dell’azione criminale di chi ha avvelenato alcune di queste terre, rischiamo di perdere quasi tutta l’agricoltura campana, con un effetto domino dalle conseguenze catastrofiche sul paesaggio, sull’occupazione, sull’economia in generale. La campagna pubblicitaria di Pomì è un campanello d’allarme rivelatore di questi possibili scenari.

Le istituzioni hanno gli strumenti per determinare con assoluta certezza le produzioni contaminate e le zone di provenienza, allo stesso modo è possibile identificare le aree e le produzioni che non presentano alcun rischio per le produzioni alimentari. In Campania ci sono l’Arpac, l’Università “Federico II”, le Commissioni Ambiente e Agricoltura della Regione che monitorano costantemente il territorio. Nel nostro piccolo, abbiamo un Comitato tecnico-scientifico dei presidi Slow Food che, insieme ad altri organismi preposti delle associazioni di categoria, si occupa delle economie dei produttori e della salute dei co-produttori. Slow Food, che negli anni ha attivato diversi presidi in quei territori, dal suo canto effettua verifiche periodiche sulla salubrità di questi prodotti e, fino a oggi, i dati sono del tutto tranquillizzanti. Prendendo ad esempio i presidi che ricadono nell’area acerrano-pomiglianese e mariglianese, le prime analisi sono state fatte a luglio e le abbiamo ripetute a settembre: in entrambi i casi, i dati ci dicono che le produzioni non hanno problemi.

E arriviamo al punto dolente: che fare invece con quei produttori che, senza alcuna colpa, lavorano in terre che saranno accertate come avvelenate? In attesa di possibili e auspicabili operazioni di bonifiche, sarà necessario riconvertirli verso produzioni no food e, se necessario, sostenerne il reddito. Come? Con i fondi per la diversificazione delle attività economiche in ambito rurale, per i quali la Corte dei Conti dell’Unione europea non ha avuto finora parole di encomio verso il nostro Paese. Tale azione punta ad affrontare i problemi delle aree nelle quali sono presenti spopolamento, scarse opportunità economiche e disoccupazione e  finanzia progetti a favore della popolazione e delle imprese rurali per contribuire a sostenere la crescita, l’occupazione e lo sviluppo sostenibile. Fondi comunitari, certo, ma non dimentichiamo che esistono anche i redditi dai beni confiscati alle mafie che potrebbero essere destinati a tali azioni.


Salvare l’agricoltura campana e occuparsi dei drammi della Terra dei Fuochi non sono due vicende distinte. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di affrontarle assieme e lo dobbiamo fare come sistema Paese. Quell’Italia che mena giustamente vanto per il suo Made in Italy alimentare, che si sta preparando a un Expo mondiale sul tema “Nutrire il Pianeta”, non può permettersi di nascondere sotto il tappeto la situazione che sta vivendo la Campania. Se muore anche la buona agricoltura campana, muore tanto di più. Sarà una grande sconfitta per tutto il Paese. E la vittoria delle mafie, almeno in quei territori, sarà definitiva e irreversibile.

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