da: Il
Fatto Quotidiano
Ieri Massimo Fini ha
scritto sul Fatto un articolo in dissenso con i miei sul caso
Cancellieri-Ligresti (clicca qui per leggere
l’articolo). Il pezzo si basa sull’assunto che io abbia equiparato le
due chiamate fatte dalla ministra ai vicecapi del Dap Cascini e Pagano per
raccomandare Giulia Ligresti alle sette telefonate di Berlusconi alla Questura
di Milano per raccomandare Ruby “nipote di Mubarak”. In effetti penso che
quelle telefonate abbiano almeno un denominatore comune: l’intenzione del
potente di turno di usare la carica di governo per assicurare un trattamento
privilegiato a un’amica tramite la solita scorciatoia all’italiana. Ma
l’analogia finisce qui e ha ragione Fini nel sottolineare le differenze. Che
sono tre.
1) B. abusava di una
funzione che non aveva, perché non era il diretto superiore della Questura (era
premier, non ministro dell’Interno), infatti è imputato per concussione; mentre
la Cancellieri ha tentato di abusare di una funzione che ha, in quanto massimo
responsabile dell’amministrazione penitenziaria.
2) B. ha ottenuto il
suo scopo, grazie alla remissività dei funzionari della Questura; la
Cancellieri invece ha incontrato la resistenza dei due vicecapi del Dap, che
non hanno dato seguito alle sue pressioni e così l’hanno salvata da
una
possibile accusa non di concussione, ma almeno di abuso d’ufficio (figurarsi
l’imbarazzo dei magistrati di Torino, quando decisero motu proprio di
scarcerare Giulia Ligresti per le sue condizioni di salute, se avessero saputo
che il ministro era intervenuto a raccomandarla).
3) La responsabilità
di B. è penale, infatti è già approdata a condanna di primo grado, mentre
quella della Cancellieri è politico-morale, anche se lei nega, dà di matto,
farfuglia di “metodo Boffo” (ma basta!) e pretende gli applausi che ieri
puntualmente una maggioranza indecente le ha tributato lasciandola sulla
poltrona.
Non sarei invece così
sicuro, come lo è Fini, che solo B. volesse “ricavare un vantaggio, cioè che
Ruby non spifferasse quanto succedeva nelle notti di Arcore”, mentre la
Cancellieri “non riceveva alcun vantaggio, se non sentimentale”. Temo che,
anche per la signora ministra, i sentimenti c’entrino poco. Basta inquadrare le
sue telefonate intercettate (e anche quelle purtroppo non intercettate con
Antonino Ligresti, fratello di Salvatore) nel contesto della sua trentennale
amicizia con una delle famiglie più malfamate del capitalismo italiano. I
fratelli Salvatore e Antonino Ligresti sono due pregiudicati per corruzione.
Antonino, proprietario di cliniche private, è amico del marito farmacista della
ministra, a sua volta arrestato nel 1981 per uno scandalo di fustelle false.
Salvatore, costruttore e assicuratore, è anche lui amico della Cancellieri
(come pure la sua compagna Gabriella Fragni), nonché proprietario della casa
dove vive il figlio della ministra, Piergiorgio Peluso, che è stato per un anno
direttore finanziario della Fonsai uscendone con una generosa liquidazione di
3,6 milioni.
Don Salvatore dichiara
ai magistrati di aver favorito, con un intervento presso l’amico B., la
carriera prefettizia della Cancellieri (lei smentisce). Giulia Ligresti dice in
una telefonata intercettata che la buonuscita di Piergiorgio a dispetto dello
scarso rendimento in azienda si deve al suo cognome (lei rismentisce). È questo
il contesto che spiega perché la ministra della Giustizia, appena vengono
arrestati Ligresti e le due figlie (mentre il terzo figlio latita in Svizzera),
sente l’impellente bisogno di chiamare la Fragni per solidarizzare con gli
arrestati contro i magistrati (“non è giusto”, “c’è modo e modo”), scusarsi di
non aver chiamato prima (quando la Dinasty siculo-milanese era già indagata per
gravi reati finanziari) e mettersi a disposizione (“Qualsiasi cosa io possa
fare, conta su di me”). Nessun accenno alle condizioni di salute di Giulia, che
entreranno in scena solo un mese dopo con le telefonate ai vicecapi del Dap.
Telefonate che, a
questo punto, sono forse l’aspetto meno grave di una vicenda che vede un ministro
(non della Marina mercantile, ma della Giustizia!) soggiogato dal rapporto
preferenziale con due noti pregiudicati che da almeno vent’anni entrano ed
escono dalle patrie galere. Un ministro la cui condotta autorizza addirittura a
ipotizzare che sia ricattabile, almeno nella mente turbata e nelle parole
malate dei Ligresti sui presunti doveri di riconoscenza che la Cancellieri e la
sua famiglia dovrebbero avere nei loro confronti. Altrimenti non si spiega
perché, prima da prefetto della Repubblica, poi da ministro dell’Interno e
infine da Guardasigilli, la Cancellieri non abbia interrotto i rapporti con due
condannati definitivi e, anzi, li abbia riagganciati dopo la nuova retata.
Giustizia, nella Costituzione e nei dizionari, è sinonimo di imparzialità,
eguaglianza, pari opportunità. C’è bisogno d’altro per affermare che questa
signora può fare tutto fuorché il ministro della Giustizia?
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