da: Il
Fatto Quotidiano
La penosa conferenza
stampa di B. sulle “nuove prove” che non solo giustificherebbero la revisione
del processo Mediaset, ma addirittura lo scagionerebbero, è – come si dice a
Roma – una sòla. Una patacca. Nessuno ha mai sostenuto che il produttore
egizio-americano Frank Agrama sia uno stinco di santo: altrimenti non sarebbe
suo amico e sodale. Del resto è stato condannato per frode fiscale anche lui.
In ogni caso la legge prevede le procedure per la revisione: se B. la chiederà,
la Corte d’appello di Brescia deciderà ciò che è giusto fare. Nel frattempo,
siccome B. è un pregiudicato, la legge Severino impone che esca con le mani
alzate dal Senato: avrebbe dovuto farlo “immediatamente” fin dal 1 agosto, se i
partiti suoi complici nelle larghe intese non avessero rinviato con ogni scusa
il voto in giunta e poi in aula.
Su un punto, però, il Cainano ha qualche
ragione di lamentarsi: quello della grazia. Non perché vi abbia diritto. Anzi,
nel suo caso la grazia non è ammissibile, sia per i numerosi processi che
ancora pendono sul suo capo, sia perché sono trascorsi appena tre mesi dalla
sentenza della Cassazione. Peccato che Napolitano non abbia mai osato dirglielo
fino all’altro ieri. Il 13 agosto, 12 giorni dopo la condanna, diramò un
mega-monito in cui spiegava le istruzioni per l’uso della clemenza, lasciando
intendere – come in varie repliche successive – che il principale ostacolo alla
grazia era che B. non l’aveva chiesta, e comunque avrebbe potuto coprire solo
la pena principale (quella detentiva) e non la pena accessoria (l’interdizione
dai pubblici uffici). In realtà – come
scrisse lui stesso – la grazia “può
essere concessa anche in assenza di domanda”, e pure sulla pena accessoria (lo
fecero altri presidenti prima di lui). Napolitano definì “legittimi” e
“comprensibili” il “turbamento” e la “preoccupazione per la condanna a una pena
detentiva di personalità che ha guidato il governo e che è per di più rimasto
leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”. Cioè
ammise che B. non è un cittadino come gli altri. Tant’è che incredibilmente
invitò i giudici a concedergli “precise alternative al carcere, che possono
essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso concreto”. Come se
fossero dovute per legge, mentre non lo sono. Mai, nella storia repubblicana e
pure monarchica, un capo dello Stato aveva spiegato come ottenere la grazia a
un tizio appena condannato (che non gliel’aveva neppure chiesta e rifiutava la
sentenza), collegandola fra l’altro al suo sostegno al governo, cioè a una
scelta politica che dovrebbe essere libera e nulla ha a che vedere con il
diritto costituzionale. È da quell’atto inaudito e forse – quello sì –
“dovuto”, in base a precedenti impegni assunti alla nascita delle larghe intese
dopo la rielezione, che iniziano le ambiguità, i non detti, le aspettative
mancate ora sfociate nella furia di B.
Un giorno, forse,
capiremo perché il presidente fece annusare la grazia al pregiudicato, che ora
schiuma di rabbia perché si sente preso in giro. Ma sono tante le cose che
dobbiamo ancora capire. Un’altra è il motivo dell’inquietante tira-e-molla
ingaggiato da Napolitano con i giudici del processo Trattativa che l’hanno
citato come teste sulle confidenze che scrisse di avergli fatto il consigliere
D’Ambrosio: prima ha dichiarato di essere “ben lieto” di testimoniare, ora
invece manda a dire di non avere “da riferire alcuna conoscenza utile al
processo” e pensa di cavarsela con una letterina in cui dice di non sapere
nulla: come se D’Ambrosio si fosse inventato tutto. Ora, se un testimone non ha
nulla da dire, non manda una lettera per chiedere l’esonero: si presenta e
risponde alle domande. I giudici alla fine decidono se è credibile, o magari
reticente o menzognero, nel qual caso lo indagano per false dichiarazioni (un
tempo potevano arrestarlo su due piedi). Cosa che non possono fare se uno
testimonia per lettera. Mentre dà lezioni di diritto al Cainano, il presidente
farebbe bene a prenderne qualcuna per sé.
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