da: la Repubblica
Leggendo ieri l’amarissimo articolo di Gianni Mura (clicca qui per leggerlo) sulla sostanziale vittoria della violenza e della volgarità degli ultras (padroni, di fatto, del calcio italiano) e sull’impotenza ventennale di ogni potere e di ogni autorità nei loro confronti, veniva da pensare che quella sconfitta sia così dolorosa perché è paradigmatica di una sconfitta più generale: quella del concetto stesso di bene pubblico, di “cosa di tutti”.
Lo stadio è una piazza dalla quale le persone comuni, non imbrancate in quei clan dai connotati spesso malavitosi, per cultura o per prassi, che sono le tifoserie di curva, si sentono escluse. I vari presidenti, dirigenti e vip locali, rinchiusi nelle loro tribune fortificate, se ne possono anche fregare (difatti: se ne fregano) ma negli stadi, oramai, c’è posto solo per i ricchi arroccati nelle loro ridotte e per una plebe criminale che divide la scena, e le telecamere, con la tribuna d’onore. Il resto è spazzato via, gradinate vuote, famiglie in fuga, disgusto e paura della brava gente. È la privatizzazione, di fatto, di uno spettacolo che fu di tutti, e oggi appartiene solo ai suoi padroni economici (le società) e ai suoi padroni militari (gli ultras). Complici gli uni degli altri.
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