da: Il
Fatto Quotidiano
La presidente della
commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti del Pd, annuncia in una
lettera al Corriere che “il Parlamento sicuramente discuterà la riforma della
custodia cautelare”, invocata da Piero Ostelli-no, ma anche da Renzi e da altri
esponenti democratici, oltreché del Centro e del Pdl. C’è addirittura “un testo
base” che potrebbe “approdare in aula a dicembre”. Il dibattito sul tema si è
acceso dopo l’assoluzione dell’ex Ad di Fastweb, Silvio Scaglia, finito in
carcere per 80 giorni e ai domiciliari per un anno nell’inchiesta su una
maxi-frode, e poi assolto in primo grado a Roma; e dopo il messaggio di
Napolitano alle Camere sull’amnistia e l’indulto per ridurre il
sovraffollamento delle carceri. Un mese fa, su 67.564 detenuti, 24.744 erano
“in attesa di giudizio”. Una cifra che spaventa e sconvolge soprattutto chi non
conosce le cose di giustizia e parla per sentito dire. Secondo i dati forniti
dalla stessa ministra Cancellieri, i detenuti
ancora in attesa della prima
sentenza sono 12.348, mentre 6.355
sono stati condannati in tribunale e aspettano l’appello, e gli altri 4.387 sono stati condannati in appello
e attendono la Cassazione. La somma non fa 24.744, ma poco più di 23 mila.
Comunque l’ordine di
idee è quello. Ma non si vede quale
“riforma” possa ridurlo drasticamente senza
mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini. Né come si possa evitare di arrestare qualcuno che poi
verrà assolto, salvo rimpiazzare i magistrati con degli indovini, o far
scrivere le sentenze direttamente ai pm. Checché
ne dica Ostellino citando l’Habeas Corpus, Kelsen, il positivismo, Saint
Simon, Comte, il nazismo e l’illuminismo (ovviamente scozzese), la custodia
cautelare non è “un’autentica vergogna per il nostro Paese” (esiste in tutto il
mondo) né “una ruota medievale usata da certi magistrati per strappare una
confessione qualsiasi per giustificare il proprio arbitrario giudizio”. È una
triste necessità che lo Stato, per evitare che i cittadini si facciano
giustizia da soli, è costretto a prevedere come extrema ratio nel periodo che
passa fra la scoperta del possibile autore di un delitto e la sentenza
definitiva: per evitare che il tizio fugga, o inquini le prove vanificando il
processo, o torni a delinquere. Un periodo
piuttosto breve nei paesi che non conoscono tre gradi di giudizio
automatici, né l’esecutività delle
sentenze solo dopo l’ultima sentenza, e che non hanno una giustizia
sfasciata dalla classe politica: cioè in quasi tutti, tranne l’Italia. Che
infatti ha il record di durata delle custodie cautelari, almeno nelle
statistiche.
Poi la realtà è molto
diversa. In America, per esempio, il
condannato presenzia obbligatoriamente al primo processo e, se viene
condannato, finisce direttamente a scontare la pena in carcere. E di lì
eventualmente presenta appello, ma solo in caso di nuove prove (la nostra
“revisione”). I ricorsi alla Corte Suprema che passano il filtro di
ammissibilità sono un centinaio all’anno. In Italia 80 mila. Gli appelli
dilatori e pretestuosi sono sanzionati duramente, anche perché dappertutto (fuorché da noi) chi ricorre
contro la condanna può beccarsi una pena
più alta nel grado successivo (reformatio in peius). Dunque, se non è
proprio innocente, non gli conviene ricorrere: semmai patteggiare e chiuderla
lì. Anche perché la prescrizione si blocca all’inizio del processo, mentre da
noi galoppa fino alla sentenza di Cassazione. Dal 1989, quando entrò in vigore il nuovo Codice di procedura penale, il Parlamento ha riformato la custodia cautelare ben 20 volte. Ora accorciando e ora
allungando la durata, ora restringendo e ora allargando i requisiti a seconda
dell’“emergenza” del momento, per amore di popolarità. Tre anni fa, fu resa obbligatoria per lo stupro (ma non
per l’omicidio: così agli stupratori
conveniva ammazzare la vittima dopo averla violentata). Poi si tentò di
fare altrettanto addirittura per lo stalking.
Ora l’arresto in flagranza è divenuto
obbligatorio anche per i maltrattamenti e il femminicidio (per il
maschicidio invece no). Ora non è ben chiaro cosa stia escogitando il
Parlamento, visto che già oggi per arrestare qualcuno prima della condanna
occorrono “gravi indizi di colpevolezza”, e solo per reati molto gravi, e solo
se le alternative sono insufficienti, e solo in presenza di prove granitiche
sul pericolo di fuga, o di inquinamento delle prove, o di reiterazione del
reato. E ogni provvedimento è
vagliato da un pm, un gip, tre giudici di Riesame e 5 di Cassazione. Dalla controriforma del 1995, poi, per fermare un
possibile fuggiasco, non basta più il “concreto pericolo che l’imputato si dia
alla fuga”, ma occorre provare che questi “stia per darsi alla fuga”: pericolo
“attuale” e “fondato su un fatto espressamente indicato”. Cioè bisogna sperare
che il fuggitivo si faccia beccare con
la valigia pronta, il cappotto addosso e il biglietto aereo in tasca. E la
recidiva non conta più nulla. I partiti
vogliono ridurre ancora i termini massimi di custodia (oggi fissati in 6
anni, dalle indagini al terzo grado, per i reati più gravi), senza far nulla per accorciare i processi,
che così si chiuderanno tutti a
gabbie vuote anche per i mafiosi? O
la proibiranno per i reati dei colletti bianchi, visto che sono gli unici
detenuti in attesa di giudizio a fare scandalo? In attesa dell’ennesima
porcata, ci permettiamo una modesta proposta: lasciate stare i codici e fate
una lista di persone che non si devono mai arrestare. Così evitiamo i forconi
delle vittime inferocite e facciamo pure prima.
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