da: la
Repubblica
Diluvio, alluvione,
ciclone, bomba o inferno d’acqua. Di fronte al cataclisma in Sardegna, sono inadeguati
gli strumenti, i mezzi e le risorse.
Ma ormai sono
inadeguate anche le parole. Saltano i parametri del linguaggio convenzionale. E
sul piano mediatico, i vecchi schemi non riescono più a rappresentare i nuovi
fenomeni, producendo un “buco” comunicativo nel circuito dell’informazione.
C’è un misto di
incredulità, di fatalismo e di rassegnazione che contagia in questi casi
l’opinione pubblica, come se un disastro di tale portata fosse un fenomeno
soprannaturale, un castigo della storia oppure una maledizione divina. O
comunque, un fatto altrui, remoto e distante non solo geograficamente. La
liturgia della solidarietà, tanto doverosa quanto spontanea, contempla perciò
il mistero della rimozione insieme alla recita di una litania a cui noi stessi
— giornalisti, osservatori, commentatori — non riusciamo a sottrarci.
La verità è che questo
atteggiamento mentale tende a esorcizzare la violenza e la crudeltà di certi
eventi, per accantonare magari inconsapevolmente le nostre
responsabilità
individuali e collettive. Per tentare di cancellare il “peccato generazionale”
di una distruzione sistematica dell’ambiente e della natura. Per trascurare o
ignorare la manomissione del clima su scala planetaria, l’inquinamento
atmosferico, il surriscaldamento della Terra.
C’è anche qualche
colpa degli ecologisti in tutto questo. L’allarmismo, il catastrofismo, il
millenarismo di una cultura apocalittica che spesso appare troppo radicale ed
estremistica. E magari incapace di fornire risposte concrete e costruttive, per
coniugare la difesa dell’ambiente con il progresso civile, l’occupazione, il
benessere, secondo un equo ordine di priorità. Ma, dall’altra parte, c’è la
barriera dell’indifferenza, dell’egoismo, dell’utilitarismo miope e gretto di
un’organizzazione sociale che pratica lo sfruttamento intensivo delle risorse —
ambientali, economiche e perfino morali — all’insegna del profitto più
immediato.
In un mondo globale
che tende a surriscaldarsi come una gigantesca sfera di fuoco, e non solo in
termini climatici, la nostra fragile Penisola protesa nel Mar Mediterraneo
diventasempre più precaria e vulnerabile. Un Paese a rischio, in emergenza
continua. Un Belpaese ridotto brutalmente a Malpaese. Il dissesto idrogeologico
si chiama in realtà urbanizzazione selvaggia; cementificazione delle coste e
dei fiumi; abbandono dell’agricoltura; incuria e degrado.
Qui manca la
prevenzione e manca soprattutto l’ordinaria manutenzione. Nella cosiddetta
legge di Stabilità, il governo stanzia un obolo di 30 milioni di euro per la difesa
del suolo, ma rischia di doverne spendere molti di più per riparare
parzialmente i danni prodotti da terremoti, frane e alluvioni. E infatti, una
risoluzione approvata all’unanimità dalla Commissione Ambiente della Camera, di
cui è primo firmatario il presidente Ermete Realacci, ne reclama almeno 500 per
mettere in sicurezza il territorio nazionale. Ma certamente lo Stato non potrà
restituire la vita alle vittime, né risarcire il lutto delle loro famiglie e
neppure curare lo choc dei 2700 sfollati.
Con un lugubre cinismo
governativo, ora il giovane ministro dell’Ambiente proclama: «Avevamo avvertito
di morti possibili». E il valoroso capo della Protezione civile assicura
burocraticamente che «si è trattato di un evento eccezionale », com’è certamente
un diluvio universale di quaranta centimetri di pioggia in poche ore. Ma non
basta «avvertire», ministro Orlando, ammesso pure che l’allarme sia stato
lanciato con tempestività ed efficacia. Né si può liquidare questa tragedia,
prefetto Gabrielli, archiviandola sotto la categoria dell’eccezionalità.
Quelle che
generalmente chiamiamo “calamità naturali”, senza trovare più neppure le parole
per raccontarle e commentarle, non sono prodotte soltanto dalla mitica furia
degli elementi. C’è un concorso di colpa dell’uomo che manipola il territorio,
non lo governa e non lo custodisce. E c’è anche la corresponsabilità politica
di chi, per dovere d’ufficio, non provvede a gestirlo con leggi, risorse e
strumenti adeguati.
Davanti alle vittime e
agli sfollati della Sardegna, non è il caso oggi di alimentare vecchie o nuove
polemiche. Ma, proprio mentre è in corso a Varsavia la Conferenza dell’Onu sul
clima, non si può fare a meno di ricordare che sono passati inutilmente sei
anni da quando fu convocata in Italia nel 2007 una Conferenza governativa sui
cambiamenti climatici per elaborare un “Piano nazionale di adattamento e di
prevenzione”. E poi i governi successivi arrivarono quasi ad azzerare i fondi
che erano stati già stanziati per aprire mille cantieri contro il dissesto
idrogeologico e per la difesa del suolo.
È tempo dunque che la
tutela dell’ambiente diventi politica generale. Cioè perno, asse portante,
della politica economica e sociale. Questa è la via obbligata per la ripresa
del Paese, della produzione e dell’occupazione, nella prospettiva di quella
“Green Economy” che postula un nuovo modello di sviluppo.
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