da: Lettera 43
Black Joe Lewis e l'ultimo
disco Electric Slave
Spazia dal rhythm and blues al funky. Dal soul al rock. Ha carisma. E
carattere. Chi è la nuova promessa della musica.
di Massimo
Del Papa
Il colorito, i baffetti, la chitarra indemoniata
e, da ultimo, un bel cappellaccio da fuorilegge, fanno tanto Jimi Hendrix.
La noterella martellante di piano
all'inizio di Skulldigging fa tanto Iggy & Stooges (chissà se anche Black
Joe vorrebbe essere il vostro cane); tutto il resto è furia, una colata di
frenesia vintage che pare rotolare giù con 40 anni di ritardo e ancora tutto
travolge.
FIATI E STILETTATE DI CHITARRA. Signori,
questo è Black Joe Lewis, che si chiama quasi come un pugile leggendario e mena
allo stesso modo: nel suo nuovo, pericoloso, ammaliante Electric Slave, tutto è
dirompente: i fiati, le stilettate di chitarra, il ruggire della voce che, sul
filo di una musica
incandescente, insegue ora Howlin' Wolf, ora Solomon Bourke,
ora James Brown, ora il citato Iggy (e ora chi vi pare). Eroi quasi sempre
neri, comunque incazzati neri, capaci di risvegliare i morti e di ammazzare i
vivi.
Il disco incrudelisce le proposte
precedenti e insieme s'apre ad abbracciare un compendio di musica black, dal
rhythm and blues al funky, dal soul (con misura) al rock and roll, fino ad un
paleo-punk fatto di furia e di ragguardevole perizia strumentale.
ANCORA COL FIDATO GRUPPO. Col buon Lewis,
si fa per dire, il suo fidato gruppo, gli Honeybears che spariscono dalla
ragione sociale ma ci sono ancora e suonano anche loro come dei santi invasati,
seppure il batterista sia cambiato e la seconda chitarra abbia salutato,
lasciando sola quella di Joe.
Che basta e avanza, in tutti i modi.
IL LAVORO AL BANCO DEI PEGNI. Narrano le
scarne cronache che il ragazzo s'imbattè nella prima sei corde lavorando, o
meglio sentendosi prigioniero, ad un banco dei pegni: fu la sua salvezza
quell'amore a prima vista, di quelli senza condizioni e senza freni: due album
prima di questo, fra il 2009 e il 2011, precorsi da una sorta di prova generale
nel 2007; tutta roba che faceva già presagire il meglio, ma adesso qualcosa è
scattato e il salto di qualità si avverte tutto.
Quelle
raffiche di jazz incontrollato
Come to my party: e la festa esplode in un
baccanale dove si agitano le anime inquiete di Sly & Family Stone ma anche
raffiche di jazz incontrollato. Stridori che escono ancor più anarchici dalla
gola di un sassofono free e ricamano una Vampire che, da tetra e ansimante, si
fa via via più libera e frenetica, con un ipnotico duetto tra il sax e la
chitarra, che arrivano esausti entrambi all'ultima nota.
Laddove Young Girls sfodera un tiro
svergognatamente rockabilly; My Blood Ain't Runnin' Right torna a scomodare un
Iggy in stage diving su un tappeto di fiati; Make Dat Money si trascina quasi
obnubilata e d'improvviso spalanca i suoi fati al groove dei Rolling Stones di
Ventilator Blues (da Exile on Main Street); resta da dire delle svisate che
superbamente sfregiano il martellante R&B di Dar El Salaam; dell'esagitata
The Hipster che rincorre, aggira, strapazza, abbraccia il gioco eterno di
Ev'rybody Needs Somebody to Love; della dirompente doppietta funk di Golem e
Mammas Queen. Fine, titoli di coda, ci si può asciugare il sudore.
Ma tutte queste, infine, sono parole. Che arrivano
fin dove una sensazione, opinabile, discutibile, può arrivare ma non dicono
quanto sia potenzialmente rilevante un lavoro del genere, che, in definitiva, è
blues da cima a fondo, sia pure innestato dal punk, dal funk, dal soul. Un
disco che si nega qualsiasi momento di tregua, di riflessione, scegliendo di
procedere sparato come un treno al quale siano saltati i freni.
UN PASSATO RIVESTITO DI SORPRESA.
Praticamente un manifesto programmatico, ostinatamente passatista ma di un
passato che vuole uscire dall'oblio per rivestirsi di sorpresa: ecco qui
qualcosa di dannatamente nuovo per voi, che vi siete dimenticati come si fa a
suonare e non riconoscete più la musica migliore. Naturalmente c'è tutto il
tempo per crescere, per concedersi un sussurro fra tanto ringhiare, ogni cosa
viene all'uomo che sa aspettare.
E dopo un album così, è chiaro che una
carriera è lanciata e altre belle conferme, e sorprese, verranno. Per il
momento, però, si può anche dire che Black Joe Lewis riprende da dove i Black
Keys, già alfieri di un garage-blues bianco, sembrano aver lasciato, preferendo
infilarsi in imbuti di irritante modernità remixata e di celebrità mainstream –
e parliamo sempre di attitudine prima che di strumenti, di frastuono o di
soluzioni compositive.
AFFAMATO COME UN PUGILE. Questo ragazzo ha
fame. È affamato di carne come un pugile che si gioca la vita e sale sul ring
per darla, la vita. Oppure toglierla. Questo ragazzo ha fame, e non lo
fermeranno facilmente. E che altro è il blues se non un boxeur crocifisso ai
suoi tagli, se non l'ultima volta di ogni cosa, l'ultima scommessa già perduta
ma non per questo risparmiata? Dice Black Joe: «Gli schiavi elettrici sono
tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhone, il
solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde
magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro fottuta
testa».
Il fatto che, per apprezzare in pieno
questo disco ci vorrebbe un sofisticato impianto stereo dal giradischi con la puntina
di diamante, e invece finirà inscatolato nelle cuffiette di un iPhone, alla
fine è un dettaglio, un segno dei tempi, una nemesi che non toglie niente
all'impatto, al valore di un nome ancora in sboccio, ma che presto, molto
presto, potrebbe fiorire (anzi esplodere) come la sorpresa che il mondo
aspetta.
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