da: Il Fatto Quotidiano
Oggi, salvo sorprese, per Silvio Berlusconi
è l’ultimo giorno di Parlamento. L’ha sempre disprezzato, da oggi lo
rimpiangerà (che fa rima con immunità).
Tutto accade a vent’anni esatti dalla sua
prima uscita politica. È il 23 novembre ’93 quando, inaugurando un ipermercato
Standa a Casalecchio di Reno, annuncia il suo appoggio a Fini contro Rutelli,
che si giocavano al ballottaggio la poltrona di sindaco di Roma. Forza Italia è
pronta da mesi. Marcello Dell’Utri ci ha lavorato da par suo. Il primo a saperlo
è stato Craxi, il 4 aprile. La Fininvest affoga nei debiti (2.500 miliardi di
lire), il pool Mani Pulite ronza attorno al Cavaliere da un anno, arrestandogli
un manager via l’altro. In estate, mentre ad Arcore impazzano i provini per i
candidati (uno, per l’emozione, è caduto nella piscina), è stato avvertito
anche Indro Montanelli: “Entro in politica, il Giornale sarà con me?”. “Te lo
puoi scordare”. Montanelli sostiene i referendum di Segni, per un centrodestra
liberale e moderato. E il 25 novembre avverte il Cavaliere sul Giornale:
“L’idea di mettere intorno a un tavolo Bossi, Fini, Segni, Martinazzoli e non
so chi altro mi sembra un sogno a occhi aperti. Ma anche se Berlusconi
riuscisse a realizzarlo, con quegli ingredienti non si fa un programma: si fa
solo un minestrone da cui non ci si può aspettare nulla di concreto”. E, sia
chiaro, “l’unico che può cacciarmi è il becchino”. Da quel momento sulle reti
Fininvest i vari Sgarbi, Fede e Liguori – i “manganelli catodici” – iniziano a
massaggiargli la schiena per indurlo alle dimissioni. Il 26 novembre, mentre
Mentana, Costanzo e i giornalisti Mondadori chiedono
garanzie sull’autonomia
del Gruppo, il vecchio Indro dice a Sette : “Se oggi in Italia saltasse fuori
un altro Mussolini, avrebbe spazio libero. Ma abbiamo visto dove portano gli
incantatori di masse”. Minoli anticipa un’intervista a Mixer del Cavaliere, che
intanto affronta i giornalisti alla Stampa estera, per la prima volta da
politico. Finge di non aver deciso se entrare in politica direttamente o solo
come sponsor di un rass emblement: la candidatura è solo l’extrema ratio, lui
non se la augura. E l’iscrizione alla P2? Una storia vecchia. E il fascismo?
Un’ideologia vecchia, “sepolta nel passato”. E chi dice il contrario? “Si
vergogni!”. La stampa di sinistra, italiana ed europea, è più scandalizzata
dall’appoggio al “fascista” Fini che dal finanziere-tycoon in politica. Ma il
Berliner Zeitung scrive: “Nessuno in Europa ha tanto potere nei media quanto
Berlusconi”, senza contare i “grossi debiti del suo gruppo”. La parola
“conflitto d’interessi” fa capolino anche in Italia, perché il Tg4 ha trasmesso
integralmente la conferenza stampa. Veltroni annuncia: “Faremo subito una legge
antitrust sulle tv e la pubblicità”. Buona questa. Si fa vivo anche Giorgio
Napolitano, presidente della Camera con un monito ante litteram: “Possono anche
entrare in campo nuovi soggetti dalla vita economica. Ma le istituzioni si
facciano carico di garantire il massimo equilibrio nell’uso dei mezzi di
informazione”. Buona anche questa. Il Cavaliere replica a stretto giro in terza
persona: “Se un editore importante dovesse scendere in campo, mi parrebbe
giusto e di buon senso scegliere tra le due cose”. Buona pure questa. Nascono i
comitati Boicotta Biscione di Gianfranco Mascia. Tina Anselmi paventa il
ritorno della P2. Sgarbi ce l’ha con “i nipotini di Stalin”. Bossi capisce
subito che la volpe di Arcore vuole razziare nel suo pollaio: “Un partito non
si crea dall’alto, piazzando una decina di generali: deve nascere dal popolo”.
Berlusconi entra per la prima volta in Senato il 16 maggio 1994. Presenta il
suo primo governo per la fiducia. E dice: “È stato legittimamente sollevato il
problema del conflitto d’interessi… Nel primo Consiglio dei ministri abbiamo
deciso una commissione di esperti per trovare delle soluzioni entro fine
settembre”. Poi fa gli auguri “ai nostri atleti” in partenza per i Mondiali di
calcio in America e, già che c’è, pure al Milan che ha vinto la Champions “per
difendere i suoi colori, quelli di Milano ma anche quelli dell’Italia”. Il 19
maggio, a Montecitorio, parla per l’opposizione Giorgio Napolitano. Nuovo
monito ante litteram: “Ricercare il più ampio consenso per le riforme
costituzionali” e dialogo con il governo: “una linea di confronto non distruttivo
tra maggioranza e opposizione”. Che “non deve impedire che il governo governi”.
Manco fosse a Westminster. Il Cavaliere si arma di un sorriso a 32 denti e sale
a stringere la mano a questo “oppositore corretto, all’inglese”.
Da alllora a oggi le apparizioni del
Cavaliere in Parlamento saranno un po’ meno numerose dei suoi capelli veri,
forse anche dei suoi processi. Quasi soltanto per le fiducie dei governi suoi e
altrui, e per le leggi sugli affari suoi. Il 2 agosto ’94 tuona contro la
sinistra che vorrebbe (addirittura) “l’esproprio proletario” della Fininvest:
“ma siamo in Italia, non nella Romania di Ceausescu”. Per il resto “il
Parlamento mi fa perdere tempo” (11.10.94). Ma, sia chiaro, “il mio rispetto
per il Parlamento è assoluto”. Il 21 dicembre gli tocca proprio andarci, alla
Camera, perché Bossi l’ha appena sfiduciato: “Ha una personalità doppia,
tripla, forse anche quadrupla. Il suo mandato diventa carta straccia. Una
grande rapina elettorale”. Il 2 agosto ’95 lancia la sua riforma costituzional-
presidenzialista. L’anno seguente, per oliare l’inciucio della Bicamerale,
ottiene dal solito Violante una seduta straordinaria della Camera per
denunciare lo scandalo del “cimicione”: “Onorevoli colleghi, il fatto è grave.
Un’attività spionistica ai danni del leader dell’opposizione, da chiunque
ordita, rientra perfettamente nel panorama non limpido della vita nazionale.
Mai, nella storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica
tante ombre e tanto minacciose. Nella giustizia malata di questo Paese siamo
alle intercettazioni virtuali” (16.10.96). Si scoprirà poi che l’aggeggio
trovato a Palazzo Grazioli è un ferrovecchio scassato e inservibile, piazzato
lì non dalle toghe rosse, ma dalla stessa ditta da lui incaricata di
“disinfestare” la casa. Nel ’97 Berlusconi vota con l’Ulivo per la missione
militare in Albania, mentre Lega e Rifondazione sono contro. Il leghista Luigi
Roscia lo canzona: “Bravo, inciucione!”. E lui: “Bravo tu, furbacchione: votate
con Rifondazione, avete proprio delle facce di cazzo!”. Poi cade Prodi e arriva
il governo D’Alema-Cossiga-Mastella. Il Cavaliere, alla Camera, torna a
strillare al ribaltone: “Continua con D’Alema la maledizione dei partiti
comunisti: mai riusciti ad andare al governo con un libero voto popolare…
Questo è uno sciagurato mix fra vecchi gladiatori e vecchie guardie rosse… Moro
fu assassinato dalle Br, i cui volti spuntavano dall’album di famiglia del
comunismo italiano. Il suo, onorevole D’Alema, è un governo senza legittimità
democratica, ha solo il 28% dei consensi”. Fabio Mussi lo fulmina: “Quando
arriva al 100 per cento, Cavaliere, ci faccia un fischio” (24.10.98). NEL 2001
torna al governo, ma non in Parlamento. Un giorno i Ds gli chiedono di riferire
alle Camere sul Medio Oriente, e lui: “Sono richieste ridicole! Basta leggere i
giornali, anche l’Unità, e tutti possono sapere la situazione in Medio Oriente”
(6.3.2002). L’Italia entra in guerra contro l’Iraq. Scalfaro denuncia in Senato
il “servilismo” di B. verso Bush. Lui sibila: “Ma vaffanculo!”. L’ulti – ma
impresa parlamentare degna di nota è in Senato, all’approvazione della
Devolution: “Chi non salta comunista è!” (16.11.05). Poi più nulla fino al 22
aprile 2013, dopo l’ultimo capolavoro: la rielezione di Napolitano. Il Re
esalta l’inciu – cio prossimo venturo e lui magnifica “il discorso più
straordinario che io abbia mai sentito nei vent’anni di vita politica”. Ergo,
“meno male che Giorgio c’è”. Segue abbraccio affettuoso.
Sette mesi fa, e pare già un secolo. Il 2
ottobre, mentre Bondi alla Camera tuona contro Letta Nipote (“vergogna
vergogna!”), Berlusconi in Senato annuncia la fiducia. Oggi – salvo colpi di
scena, o di coda, o di mano, o di testa, o di sonno – Palazzo Madama voterà la
sua decadenza. E, se sarà presente, i commessi lo accompagneranno all’uscita.
Potrà rientrare fra sei anni, quando ne avrà 83. E l’ordine lo darà il
presidente Piero Grasso, lo stesso che l’anno scorso voleva premiarlo per il
suo indefesso impegno antimafia. A quel punto, al Caimano, verrà da ridere. O forse
da piangere.
Nessun commento:
Posta un commento