da: la
Repubblica
La Cancellieri non
spiega, ma tronca e sopisce. Dal “non è giusto, non è giusto” a “sono a
disposizione”: ecco tutti i dubbi che restano.
Il caso
Cancellieri-Ligresti si risolve secondo copione. Nel Palazzo d’inverno,
dominato dai trasformismi e assediato dai populismi, c’è poca voglia di
sfogliare fino in fondo il grande Romanzo del Potere. Si preferisce il Conte
Zio di Manzoni, che troncava e sopiva. Il ministro della Giustizia esce dunque
indenne dal Parlamento. Non solo non si pente e non si dimette. Ma alla fine
incassa dalla strana maggioranza una rinnovata fiducia. Lievemente dolorosa
quella del centrosinistra. Palesemente velenosa quella del centrodestra.
Il Pd considera
esaustivo il chiarimento per ragioni di coscienza istituzionale. Non rinuncia a
ribadire «l’inopportunità» di quella conversazione con la compagna di Don
Salvatore e la necessità di non distinguere mai più «tra cittadini di serie A e
cittadini di serie B». Ma alla fine assolve il Guardasigilli, ancora una volta
in nome di quella «responsabilità» che ieri gli ha imposto di sostenere il
governo Monti e oggi gli impone di non far naufragare il governo Letta.
Il Pdl, viceversa, fa
quadrato sulla Cancellieri per ragioni di convenienza strumentale. La difende
perché vuole dimostrare che la sua telefonata alla signora Ligresti per
«mettersi a disposizione» è legittima almeno quanto la telefonata di Berlusconi
alla Questura di Milano per far liberare Ruby «nipote di Mubarak». Un’equivalenza
impossibile e inaccettabile. Ma è solo in nome di questo ennesimo illusionismo
politico, e non certo di un presunto «garantismo» giuridico, che oggi il
partito del Cavaliere si schiera a fianco del Guardasigilli.
La Cancellieri aveva
diverse questioni di cui rendere conto, di fronte al Parlamento e al Paese.
Ma c’era soprattutto
una domanda, capitale e dirimente, che esigeva una risposta limpida e
convincente. Perché quel 17 luglio, nel giorno dell’arresto di Ligresti e delle
sue figlie, sentì il bisogno di telefonare a Gabriella Fragni, e di dirle:
«Senti, non è giusto, non è giusto, lo so, povero figlio… Comunque guarda,
qualunque cosa io possa fare, conta su di me… Appena riesco ti vengo subito a
trovare, però qualsiasi cosa, veramente, proprio qualsiasi cosa adesso serva,
non fate complimenti, guarda, non è giusto, non è giusto…».
Cosa «non è giusto»
(ripetuto per ben quattro volte) nell’iniziativa dei magistrati che fanno
scattare le manette ai polsi di una dinastia responsabile di un buco da 1
miliardo di euro, succhiato ai bilanci della Fonsai per soddisfare gli
interessi personali del clan? E cosa vuol dire quel «qualsiasi cosa adesso
serva» che il Guardasigilli si dichiara disposto a fare, per rimediare a quella
«ingiustizia»? Infine, ed è il nodo cruciale della vicenda: può un ministro
della Giustizia, pur animato dall’amicizia, esprimersi così di fronte a
un’iniziativa disposta dall’autorità giudiziaria, di cui dovrebbe essere invece
garante?
Questi dubbi la
Cancellieri non li ha dissipati. Ha rivendicato ancora una volta l’assoluta
correttezza del suo operato. In quella telefonata, sostiene, «intendevo
manifestare un sentimento di umana vicinanza a una persona che si era venuta a
trovare in una situazione di eccezionale emotività… Le espressioni da me usate
in quel contesto erano dunque finalizzate a creare empatia… «. Un movente
comprensibile, ma non giustificabile. In quelle parole — pronunciate un mese
prima della richiesta dei domiciliari per Giulia Ligresti, in quel momento non
certo sofferente né di anoressia né di depressione — c’è molto più che «umana
solidarietà» e molto più che «empatia ». C’è invece un preciso giudizio di
merito su quanto accaduto (cioè gli arresti dei Ligresti), che si traduce nella
solidarietà alla famiglia e nella delegittimazione dei magistrati.
Rispetto
all’orgogliosa rivendicazione di quel colloquio, espressa nelle interviste
rilasciate in questi giorni, in Parlamento la Cancellieri azzarda una parziale
presa d’atto: «Mi rendo conto — afferma in aula — che alcune espressioni usate
in quella telefonata possono aver ingenerato dubbi sul senso delle mie parole:
mi dispiace che sia stato così e mi rammarico di aver fatto prevalere i
sentimenti sul doveroso distacco che un ruolo di ministro aveva forse dovuto
imporre». Purtroppo il «rammarico» non basta. Anche perché a inficiarne
l’autenticità c’è un «forse» di troppo, riferito al «doveroso distacco» che il
ruolo di ministro le imponeva. Aggiungere quell’avverbio equivale a non capire
(o a fingere di non aver capito) l’enormità dell’errore commesso.
Un secondo dubbio che
il ministro non ha dissolto riguarda quello che poi accadde il 28 agosto,
quando Giulia Ligresti viene effettivamente rilasciata dal carcere di Vercelli
e trasferita agli arresti domiciliari. «La scarcerazione — precisa il ministro
— non è avvenuta a seguito o per effetto di una mia ingerenza, ma per
indipendente decisione della magistratura torinese… Non ho mai sollecitato nei
confronti di organi competenti la scarcerazione e non ho mai indotto altri ad
agire in tal senso… ». Eppure, nelle dichiarazioni che lo stesso Guardasigilli
rende ai procuratori di Torino Vittorio Nessi e Marco Gianoglio il 22 agosto,
c’è scritto nero su bianco che la sollecitazione c’è stata, ed è stata
successiva alle pressioni della famiglia di Paternò.
«Effettivamente —
dichiara a verbale il Guardasigilli — ho ricevuto una telefonata da Antonino
Ligresti che conosco da molti anni. Ligresti mi ha rappresentato la
preoccupazione per lo stato di salute della nipote Giulia Maria la quale soffre
di anoressia e rifiuta il cibo. In relazione a tale argomento ho sensibilizzato
i due vice capi di dipartimento del Dap, Francesco Cascini e Luigi Pagano,
perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute
dei carcerati ».
Ricapitolando: mentre
in Parlamento la Cancellieri giura di non aver «sollecitato» nessuno, ai pm ha
detto di aver «sensibilizzato i due capi di dipartimento del Dap». E mentre in
Parlamento il ministro ripete che allo stesso modo si è «comportata in molti
altri casi, non ho bisogno di farne i nomi, sono tanti ed anonimi, più di cento
solo negli ultimi mesi», con i pm deve riconoscere che il suo «interessamento
diretto» è avvenuto «per un carcerato soltanto»: Giulia Maria Ligresti, appunto.
A supporto della sua
tesi, il Guardasigilli cita il capo della Procura di Torino: «Sarebbe
arbitrario e destituito di ogni fondamento» — scandisce di fronte ai
parlamentari — il tentativo di ricondurre alla sua intromissione il rilascio
della figlia di Don Salvatore, visto che «lo stesso Giancarlo Caselli ha
ricordato più volte che a determinarla sono state esclusivamente le condizioni
di salute della donna e la sua richiesta di patteggiamento».
La pezza d’appoggio si
vede, ma non ripara. Caselli ha in effetti «scagionato» la Cancellieri, ma si
fatica a comprendere a quale titolo. La decisione sulla richiesta dei
domiciliari, secondo il codice di procedura penale, non spetta alla Procura,
che in teoria non è neanche titolata a conoscerla, ma esclusivamente al
Tribunale di Sorveglianza. Dunque, anche in questo caso, il «chiarimento» non
chiarisce.
E lo stesso, infine,
si può dire del coinvolgimento nella vicenda del figlio del ministro,
Piergiorgio Peluso, assunto in Fonsai nel maggio 2011 e uscito due anni dopo
con un bonus da 3,6 milioni, dopo aver fatto esplodere il crack finanziario
della compagnia. La Cancellieri giudica assolutamente «indebito» quel
coinvolgimento. Eppure il nome di Peluso non è il frutto di alcun «complotto» e
meno che mai è il prodotto della «macchina del fango», che lo stesso ministro
ha evocato più volte in questi ultimi giorni. Suo figlio compare invece più
volte nelle carte dell’inchiesta Fonsai, agli atti della Procura torinese. Ed è
lo stesso Guardasigilli a parlarne.
Basta riprendere di
nuovo in mano il brogliaccio della telefonata del 17 luglio con la Fragni, per
averne conferma: Dice il ministro, all’amica in lacrime: «Sono veramente
dispiaciuta. Ma sono mesi che ti voglio… Poi ci sono state le vicende di
Piergiorgio… «. La Fragni risponde: «Anche io non ho mai chiamato perché mi
veniva sempre in mente quel discorso che mi avevi fatto in cascina: “Non sono
contenta, non vorrei che ci andasse di mezzo la nostra amicizia”…».
Ecco il macigno che in
quel momento sembra pesare sul cuore del ministro. Quasi un inconfessabile
«senso di colpa», che le ha impedito di parlare per mesi con la famiglia
siciliana, visto che è stato proprio suo figlio a smascherarne i falsi in
bilancio, quindi a far partire le inchieste e infine gli arresti. Il
Guardasigilli se ne duole, nella «confessione» telefonica con l’amica: «Ah
guarda, maledetto quel momento…».
L’autodifesa che non
difende finisce qui. La storia resta opaca, anche se la coalizione di governo,
per mutue ancorchè opposte convenienze, si illude di vedere «piena luce» nella
ricostruzione del ministro. Di dimissioni, com’era prevedibile, non si parla
neanche più. Vale il motto di Flaiano: in Italia la rivoluzione non si farà
mai, perché alla fine ci conosciamo tutti.
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