da: la
Repubblica
Come i peggiori
azzeccagarbugli della Prima Repubblica, hanno provato a sopire la vicenda
Cancellieri con un pasticcio doroteo. Un compromesso al ribasso che, a dispetto
delle apparenze, ammacca ulteriormente la credibilità della politica e intacca
irrimediabilmente la stabilità del governo. Ma com’era ovvio anche questo
tentativo fallisce. Tre minuti dopo il voto della Camera, dalla Procura di
Milano arrivano i verbali imbarazzanti di un interrogatorio di Salvatore
Ligresti. E così, proprio nel giorno in cui si doveva chiudere, il caso
riesplode in tutta la sua gravità. E la cortina fumogena, generosamente profusa
dai palazzi romani, non può più nasconderlo.
La bocciatura della
mozione grillina non è una convinta fiducia riconfermata a un ministro
inattaccabile, ma una sofferta «non sfiducia » concessa a un ministro
ricattabile. Nella battaglia di Via Arenula escono tutti sconfitti. E tutti
ugualmente consapevoli che la guerra non è affatto finita, ma semmai è appena
cominciata. Esce sconfitto il ministro della Giustizia. Annamaria Cancellieri
continua a negare ogni evidenza. Continua a ripetere un’arringa difensiva che
non cambia mai, nonostante le palesi incongruenze emerse dall’incrocio tra gli
atti giudiziari e le spiegazioni fornite ai magistrati, al Parlamento e ai
giornali.
Continua a gridare
indignata la sua correttezza politica di Guardasigilli, che non ha mai violato
le regole e non ha mai mentito a nessuno, e la sua rettitudine morale di donna,
che sul caso di Giulia Ligresti ha agito sempre e solo per spirito umanitario.
Ma continua a non capire che quelle sue telefonate con i parenti di Don
Salvatore, prima smentite e poi ammesse con mille ambiguità, l’hanno marchiata
a fuoco. Continua a non comprendere che quei suoi rapporti intimi e
oggettivamente preferenziali con la famiglia di Paternò ne hanno vulnerato per
sempre l’immagine personale e il profilo funzionale. Continua a non realizzare
che il suo «scandalo » non attiene al codice penale (almeno fino a prova
contraria), ma a un codice etico al quale si risponde sempre e comunque, se si
hanno davvero a cuore le istituzioni e la loro onorabilità. Questa onorabilità,
piaccia o no, è stata scalfita agli occhi dell’opinione pubblica. Per questo il
Guardasigilli doveva e dovrebbe dimettersi, invece di restare al suo posto in
un ruolo che aveva detto di non voler mai accettare: quello di un ministro
«dimezzato». Ora lo è, a tutti gli effetti.
E lo è, a maggior
ragione, dopo la lettura dell’interrogatorio di Don Salvatore, che ai pm di
Milano dice testualmente: «Mi feci latore, presso Silvio Berlusconi, del
desiderio dell’allora Prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e
preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione ». Il ministro
smentisce con sdegno anche questa circostanza. Ma il quadro d’insieme che
emerge tra Torino e Milano ripropone interrogativi inquietanti sui rapporti tra
i Peluso-Cancellieri e i Ligresti. Tutto — compresa la vicenda del figlio del
Guardasigilli, assunto e poi fuggito da Fonsai dopo averne scoperchiato il buco
da 1 miliardo — sembra alimentare i sospetti sull’esistenza di una qualche
«obbligazione » che lega le due famiglie, e che il ministro si sente in dovere
di «saldare». È sempre più difficile, in queste condizioni, raccontarsi al
Paese e alle Camere come «una persona libera», che non ha «contratto debiti di
riconoscenza verso nessuno ».
Esce sconfitto il
presidente del Consiglio. Enrico Letta, qualunque cosa accada, continua a
parlare di «governo più forte». Lo ha fatto la scorsa settimana, dopo la
diaspora berlusconiana cheha scisso in laboratorio le due destre per coprire
sul mercato elettorale sia la domanda moderata sia quella esagitata. Lo fa
oggi, dopo una blindatura della Cancellieri incomprensibile (se non in virtù
dell’alto patronato quirinalizio sul Guardasigilli). Per ottenerla, il premier
ha imposto un teorema presentato come indimostrabile: sfiduciare quel ministro vuol dire sfiduciare il governo. Perché mai? A
questa domanda non c’è risposta. «Respingere l’assalto del Movimento
5Stelle» non lo è, perché proprio per evitare l’ordalia pentastellata la
Cancellieri avrebbe dovuto esser costretta a dimettersi prima del voto sulla
mozione. Letta non l’ha fatto, o non c’è riuscito. Il risultato è che ora ha in
squadra un’anatra zoppa sulla quale continuano a volteggiare falchi e avvoltoi,
convinti che l’affare Ligresti promette altri sviluppi.
Esce sconfitto il Pd. In tutte le sue «anime». Da una parte c’era Matteo Renzi,che aveva trasformato il caso Cancellieri in un atto
fondativo, quasi un «battesimo del fuoco» per la sua leadershipnascente. La
richiesta irrevocabile di dimissioni, per il futuro segretario del partito,
serviva a lanciare due messaggi molto precisi. Il primo proiettato all’esterno:
forte novità «culturale», per affermare i valori della moralità e del
cambiamento profondamente avvertiti dagli elettori e dagli iscritti. Il secondo
rivolto all’interno: chiara discontinuità «strutturale», per ridefinire subito
i rapporti di forza con il resto del partito, il presidente del Consiglio e
perfino il presidente della Repubblica. Alla fine, per disciplina, per
responsabilità, per realpolitik, il candidato leader ha dovuto suo malgrado
piegarsi al teorema di Letta. Gli resta appuntata sul petto un’onorificenza:
quella di aver combattuto la buona e giusta battaglia. Ma la battaglia l’ha
persa comunque, anche lui.
Dall’altra parte c’era
il resto del partito, che pur di nondare partita vinta al Gianburrasca
fiorentino si è schierato a prescindere con Letta e la Cancellieri (la vecchia
guardia dei «resistenti» guidati da D’Alema) o ha finito per ingoiare il
boccone indigesto della «non-sfiducia » al Guardasigilli (la nouvelle vague
incarnata da Cuperlo e Civati). In mezzo c’era il segretario pro-tempore
Guglielmo Epifani, che stavolta si è dimostrato decisamente al di sotto del
ruolo. Il suo discorso alla Camera è stato rinunciatario e contraddittorio: ha
rilanciato tutte le critiche alla Cancellieri, salvo poi confermarle la fiducia
e suggerirle addirittura, quasi come grottesca «espiazione», l’apertura di un
call center per i carcerati non «eccellenti» come i Ligresti.
Escono sconfitti i
soliti berlusconiani di complemento (l’intervento di Renato Brunetta, tuttora
esponente di un partito di maggioranza, grondava di futili rancori contro il
premier e di inutili livori contro il Pd) e i soliti grillini da combattimento
(la scenata dei telefonini che squillano nell’emiciclo è degna di un’assemblea
di condominio, non di un’aula parlamentare). Ed esce sconfitta persino la
magistratura: resta un rebus il comportamento della Procura di Torino, che
annuncia con tanto di comunicato «il ministro Cancellieri non è indagato», ma
al tempo stesso invia gli atti alla Procura di Roma per «i necessari, ulteriori
approfondimenti». Delle due l’una: se non c’erano profili penali da chiarire,
nella posizione del Guardasigilli, l’inchiesta andava archiviata. Se invece
c’erano, allora la Cancellieri andava indagata (fermo restando il problema
della competenza territoriale). I magistrati torinesi, sorprendentemente, non
hanno fatto né l’una né l’altra scelta.
Alla fine, nella
disfatta complessiva del sistema, l’unica ad aver prevalso è la ragion di
Stato. La Cancellieri resta al suo posto, perché questo è deciso e perché
questo serve per garantire la «stabilità». Una scelta miope, e sbagliata due
volte. La prima, perché la stabilità coincide ormai sempre più spesso con
l’immobilismo. La seconda, perché come dimostrano le nuove carte della Procura
di Milano la mina Cancellieri è tutt’altro che disinnescata. Stupisce che a non
capirlo, ancora una volta, sia proprio il Partito democratico. Rimasto ormai
quasi solo a tenere sulle spalle il governo delle Intese sempre meno Larghe, ma
sempre più Pesanti.
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