da: la Repubblica
Nel dilagare della piccola corruzione,
miserabile al punto da mettere a rimborso della Regione Emilia Romagna il
prezzo dell’asciugacapelli e lo scontrino da 50 cent per l’uso del wc, c’è pure
il capolavoro della banda dei bus di Roma. Che, se fosse vero, meriterebbe il
premio “Mascalzone d’oro”. Per circa dodici anni un bel numero di dipendenti
del Comune della capitale avrebbero stampato biglietti del metrò falsi, li
avrebbero distribuiti alle rivendite-spacciatrici e avrebbero gestito con
riservata oculatezza la contabilità criminale, circa 90 milioni di euro l’anno,
comprando il silenzio complice della politica, da destra a sinistra. E stiamo
parlando della città governata prima da Veltroni e dopo da Alemanno. Come si vede
quest’impresa supera la pur fantasiosa tradizione dei nostri migliori magliari,
stereotipi dell’Italia che fu povera e truffaldina, quelli delle banconote
false stampate da Totò, Peppino e la banda degli onesti, o quelli che vendevano
la Fontana di Trevi ai ricchi e ottusi americani in visita a Roma.
Da un lato dunque si scopre che, come ha
detto il Papa, non c’è campanile d’Italia dove non si faccia la cresta sul
danaro pubblico, dalle tangenti di Trezzano sul Naviglio sino alle nomine
camorriste ai vertici delle Asl di Napoli, e dall’altro nella Capitale viene
fuori, come raccontano Daniele Auteri e Carlo Bonini, un’evoluzione
dell’antropologia criminale italiana così creativa e raffinata
da fare
dell’Atac, l’azienda dei trasporti del Comune, un’enorme società di falsi
autentici: le false vendite e i falsi acquisti dei falsi autobus, i falsi
impiegati che erano in realtà parenti, cugini, camerati di partito, belle
cubiste… Ed erano falsi i biglietti, falsi i bilanci, falso tutto, anche gli
ispettori che insabbiavano, proprio come nel film La stangata dove erano false
la ricevitoria, le scommesse, le corse e persino i cavalli.
Il sindaco Ignazio Marino, che ovviamente
non è responsabile se non altro perché ancora non c’era, denunzia anche «il
rapporto tra passeggeri e paganti» che, dice, «a Roma è tra i più bassi
d’Europa ». Ma non tiene conto di quei romani che pagavano ma non risultavano
paganti perché i loro biglietti erano falsi. E dunque erano fantasmi, falsi,
anche i passeggeri. Più comprensibile è la rabbia dei pendolari che adesso si
stanno organizzando in squadre denominate “Roma non paga l’Atac”: presidi,
scioperi, manifestazioni contro la più grande azienda italiana del trasporto
municipale, 120 mila dipendenti, un miliardo di passeggeri l’anno, un debito di
un miliardo e seicento milioni, il teatro perfetto per la grande truffa del
secolo.
Si sa che l’Italia non è il Paese di
Dostoevskij ma appunto quello di Totò. E però c’è qualcosa di nuovo, né di
tragico né di comico, nelle due notti d’albergo a Venezia — 1100 euro — che il
capogruppo del Pd dell’Emilia Romagna ha messo in nota spese. Se è vero che la
regia, come ha detto il Papa, è del demonio, ebbene si tratta di un demonio
malmesso: il diavolo del mangiucchiamento a scrocco. Com’è infatti possibile
che questo satanicchio emiliano in trasferta a Venezia non abbia avuto né
cautela né vergogna? E davvero il presidente della Giunta regionale ligure è
stato costretto a dimettersi per «la gogna mediatica» e perché «qualche amico
mi ha pugnalato alle spalle», e non per quell’ammanco di trentaduemila euro che
gli è stato contestato?
Certo, c’è pure “la gogna mediatica” in
questa Italia, tanto che io stesso debbo mordermi la lingua per non dire «ben
gli sta» al sindaco di Adro, che è ai domiciliari per corruzione. È infatti il
sindaco leghista che si esprimeva in lombardo, tappezzava la città con il sole
delle Alpi e intanto toglieva il pane ai bambini poveri, negando loro l’accesso
alle mense scolastiche. In questo senso garantista non è corruzione ma spreco
il mezzo milione che la Rai ha destinato alla pacchianeria dei regali
aziendali, argenteria più indecente che preziosa, orologi da ventimila euro
l’uno, doni imbarazzanti per i quali la Rai non va perseguita né perseguitata e
neppure sanzionata: per chi viola la decenza basta un po’ di vergogna.
Rimane difficile da capire perché mai
pensassero di farla franca e perché non si sentissero né goffi né spericolati i
consiglieri regionali della Sardegna (di tutti i partiti) quando, con i soldi
dei “rimborsi politici” compravano pecore, scarpe da tennis, Rolex, penne
stilografiche placcate in oro…, e ci sono persino le spese di un matrimonio.
Davvero non c’è più alcun rapporto con i famosi costi della politica di cui
parlava Craxi e con quella tiritera difensiva che tutti ancora recitano quando
vengono presi con le mani nel sacco e cioè che la corruzione diffusa starebbe
tutta nel «genere» e non del «degenere» della politica, e che quindi chi ha
ecceduto, imbrogliato, coperto e accettato lo avrebbe fatto per il partito, per
il gruppo, per l’ideale: mascalzoni sì, ma per servire meglio la democrazia.
Cosa c’entra il sacerdozio della politica
con l’acquisto di salumi e formaggi a Bologna o con una penna di 500 euro e
persino con tre pacchetti di caramelle? Perché un uomo politico, un eletto,
pensa, senza ridere, di avere il diritto di mangiare le caramelle gratis? E
dopo le famose feste con le teste di maiale e le pazzie economiche di “er
Batman” com’è possibile che i gruppi dell’Assemblea dell’Emilia Romagna,
compreso il Movimento cinque stelle e Sel, non abbiano imparato la lezione e
siano adesso indagati per peculato?
In questa Italia della truffa e
dell’arraffo, si tratti di una bottiglia di vino in Piemonte o di un appalto
per la pulizia degli ospedali campani, per forza deve esserci qualcosa di più
(o di meno) della furbizia classica e della cresta sulla spesa, che in fondo è
sempre stata un segno di opulenza e di benessere. Forse c’è davvero lo Stato in
decadenza in questi uomini di partito, forse le piccole abbuffate di questo
ceto impiegatizio e roditore ripropongono, come estrema risorsa della politica,
l’antico modello economico delle città barbaresche, quelle che crescevano
grazie al «furto», forse l’Italia disperata della pirateria a scrocco è l’esemplificazione
della profezia di Brecht: «La corruzione è la nostra unica e ultima speranza».
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