da: la Repubblica
Comuni senza piani d’emergenza ecco perché l’allerta di
domenica non è riuscita a evitare la tragedia
La rabbia dei cittadini: “Nessuno ci ha avvisati”. Lite
tra sindaci e Gabrielli
di Fabio Tonacci
Il canovaccio del
prossimo disastro è già scritto. Suona più o meno così: allerta meteo della
Protezione civile, comunicazione alla Regione e ai comuni, sindaci che da soli,
in una manciata di ore devono decidere se evacuare migliaia di persone. Piani
di emergenza? Ad Arzachena, dove una famiglia è morta annegata nel suo
seminterrato, non ce l’hanno. Poi, i ritardi dei soccorsi. I morti. E le
polemiche del giorno dopo. «Perché nessuno ci ha avvisati? », urlava ieri un
insegnante nel quartiere di Sant’Antonio di Olbia, costretto come altri
centinaia di sardi a sfollare. «Tutte falsità — ha replicato il capo della
Protezione civile Franco Gabrielli — l’allarme è stato dato in tempo». È
l’Italia che non impara da se stessa.
Il fatto che 6.600 comuni,
l’82 per cento del totale, siano a elevato rischio idrogeologico è da tempo
noto. Che non ci siano i miliardi per mettere tutto in sicurezza, pure. Ma cosa
non funziona nella cintura di protezione che dovrebbe
attivarsi prima della
catastrofe? Le colpe si intravedono, ma sono dell’uomo più che della natura
arrabbiata.
LE REGIONI SCOPERTE
Non è colpa dei
fulmini e delle nuvole gravide d’acqua se la Sardegna — come l’Abruzzo, la
Basilicata, la Sicilia, il Friuli Venezia Giulia, la Puglia — non ha ancora
attivato un centro funzionale regionale di protezione civile che lavori in
concerto con Roma. È un obbligo di legge, dal 2004: serve a veicolare meglio le
informazioni, a confrontarsi sugli interventi e sulle priorità. Ma non esistono
sanzioni per chi non lo attiva. Per le regioni scoperte finora ha fatto da
supplente il Dipartimento nazionale, assumendosi responsabilità che non gli
competerebbero. Senza il coordinamento, diventa più complicato anche il sistema
d’allerta.
Ogni giorno dagli
uffici della protezione civile di Roma, intorno alle 15, parte il “bollettino
meteo di vigilanza nazionale”. In caso di allarme, viene emesso un “avviso di
criticità” destinato alle regioni. «Domenica alle 15 abbiamo diffuso il codice
rosso per tutta la Sardegna — spiega Paola Pagliara, responsabile del centro
Previsioni e monitoraggi del Dipartimento — tranne che per la zona nord-ovest,
che era da codice arancione. L’avviso è stato mandato alla Regione». Che, come
detto, non ha ancora un centro operativo autonomo. E dunque si è limitata a
fare da cinghia di trasmissione, girando il messaggio a prefetture, province. E
ai comuni coinvolti. La palla dunque passa a loro.
I PIANI “FANTASMA”
Per gestire un’allerta
meteo, per organizzare vie di fuga, aree di evacuazione, presidi di sicurezza
dei fiumi, serve un “piano di d’emergenza”. È obbligatorio dal 1970, ma in
Sardegna 4 comuni su 10 ne sono sprovvisti. Stando all’elenco pubblicato sul
sito della Protezione civile, non ce l’ha Arzachena, dove due adulti e due
ragazzi brasiliani sono morti nel seminterrato. E nemmeno ce l’hanno a Oliena,
Ballao, Decimoputzu, Villaputzu, Villaurbana, Uras (qui è annegata nella sua
casa una donna di 64 anni). «I comuni si devono sforzare anche di comunicarli
ai cittadini — spiega Francesca Ottaviani, di Legambiente — e mettere in
pratica le esercitazioni. Avere un piano e non sapere come gestirlo, non serve
a niente».
Secondo un dossier di
Legambiente, l’82 per cento degli enti locali ha un piano di emergenza, ma solo
la metà lo ha aggiornato. E poco
meno di un terzo ha
previsto esercitazioni di protezione civile. Mettere nero su bianco un piano,
significa individuare le aree di pericolosità del territorio. Significa dunque
spiegare ai propri cittadini quali opere andrebbero fatte. E se poi non si
fanno, alle elezioni qualcuno se ne ricorderà.
“LASCIATI SOLI”
«Ma questa è
protezione civile o incivile?», chiedeva ieri una 40enne di Olbia, con le gambe
immerse nel fango. In realtà il sistema è costruito in modo tale da scaricare
su un uomo solo, il sindaco, tutto il peso delle decisioni. Sono i soli che,
per legge, possono avvertire i propri cittadini di una bomba d’acqua o
dell’imminente esondazione di un fiume. Che fare? Evacuare? Rafforzare un
argine? Pregare che smetta di piovere? «Così non è giusto né sicuro — attacca
il sindaco di Perugia Wladimiro Boccali, delegato Anci per la protezione civile
— tutti bravi a parlare, ma poi tocca a noi gestire le alluvioni. A volte dalla
Protezione civile e dalle Regioni non abbiamo indicazioni precise». Boccali per
avvertire i suoi concittadini utilizza gli sms. Altri sindaci usano i social
network. «Vi pare normale — aggiunge — che solo adesso spuntano 30 milioni di
euro per la Sardegna? Gli interventi di messa in sicurezza devono essere
esclusi dal patto di stabilità, altrimenti vedremo ancora queste scene di
distruzione e morte».
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