da: la Repubblica
La tentazione sarà grande, dopo il voto
sulla decadenza di Berlusconi al Senato, di chiudere il ventennio mettendolo
tra parentesi. È una tentazione che conosciamo bene: immaginando d’aver
cancellato l’anomalia, si torna alla normalità come se mai l’anomalia — non fu
che momentanea digressione — ci avesse abitati.
Nel 1944, non fu un italiano ma un
giornalista americano, Herbert Matthews, a dire sulla rivista Mercurio di Alba
de Céspedes: «Non l’avete ucciso!» Tutt’altro che morto, il fascismo avrebbe
continuato a vivere dentro gli italiani. Non certo nelle forme di ieri ma in
tanti modi di pensare, di agire.
L’infezione, «nostro mal du siècle »,
sarebbe durata a lungo: a ciascuno toccava «combatterlo per tutta la vita»,
dentro di sé. Lo stesso vale per la cosiddetta caduta di Berlusconi. È un
sollievo sapere che non sarà più decisivo, in Parlamento e nel governo, ma il
berlusconismo è sempre lì, e non sarà semplice disabituarsi a una droga che ha
cattivato non solo politici e partiti, ma la società. Sylos Labini lo aveva
detto, nell’ottobre 2004: «Non c’è un potere politico corrotto e una società
civile sana». Fosse stata sana, la società avrebbe resistito subito all’ascesa
del capopopolo, che fu invece irresistibile: «Siamo tutti
immersi nella
corruzione», avvertì Sylos. La servitù volontaria a dominatori stranieri e
predatori ce l’abbiamo nel sangue dal Medioevo, anche se riscattata da
Risorgimento e Resistenza. La stessa fine della guerra, l’8 settembre’43, fu
disastrosamente ambigua: «Tutti a casa », disse Badoglio, ma senza rompere con
Hitler, permettendogli di occupare mezza Italia. Tutte le nostre transizioni
sono fangose doppiezze.
Dico cosiddetta caduta perché il berlusconismo
continua, dopo la decadenza. Il che vuol dire: continua pure la battaglia di
chi aspira a ricostruire, non solo stabilizzare la democrazia. Il ventennio
dovrà essere finalmente giudicato: per come è nato, come ha potuto attecchire.
Al pari di Mussolini non cadde dal cielo, non creò ma aggravò la crisi
italiana. Nel ’94 irruppe per corazzare la cultura di illegalità e corruzione
della Dc, di Craxi, della P2, e debellare non già la Prima repubblica ma la
rigenerazione (una sorta di Risorgimento, anche se trascurò la dipendenza del
Pci dall’oro di Mosca) avviata a Milano da Mani Pulite, e poco prima a Palermo
da Falcone e Borsellino.
Il berlusconismo resta innanzitutto come
dispositivo del presente. Anche decaduto, assegnato ai servizi sociali, il leader
di Forza Italia disporrà di due armi insalubri e temibili: un apparato
mediatico immutato, e gli enormi (Sylos li definiva mostruosi) mezzi
finanziari. Tanto più mostruosi in tempi di magra. Assente in Senato, parlerà
con video trasmessi a reti unificate. E in campagna elettorale avrà a fianco la
destra di Alfano: nessuno da quelle parti ha i suoi mezzi, la sua maestria.
Monti contava su 15-16 punti, prima del voto a febbraio. Alfano solo su 8-9
punti. La scissione potrebbe favorire Berlusconi, e farlo vincere contro ogni
nuova gioiosa macchina di guerra.
Ma ancora più fondamentale è l’eredità
culturale e politica del ventennio: i suoi modi di pensare, d’agire, il mal du
siècle che perdura. Senza uno spietato esame di coscienza non cesseranno
d’intossicare l’Italia.
Il conflitto d’interessi in primis, e
l’ibrido politica-affarismo: ambedue persistono, come modus vivendi della
politica. La decadenza non li delegittima affatto. La famosa legge del ’57
dichiara ineleggibili i titolari di importanti concessioni pubbliche (la Tv per
esempio): marchiata di obsolescenza, cade nell’oblio. Sylos Labini sostenne che
fu l’opposizione a inventare il trucco per aggirarla. Non fu smentito. L’onta
non è lavata né pianta.
Altro lascito: la politica non distinta ma
separata dalla morale, anzi contrapposta. È un’abitudine mentale ormai, un
credo epidemico. Già Leopardi dice che gli italiani sono cinici proprio perché
più astuti, smagati, meno romantici dei nordici. Non sono cambiati. Ci si
aggrappa a Machiavelli, che disgiunse politica e morale. Ci si serve di lui,
per dire che il fine giustifica i mezzi. Ma è un abuso che autorizza i peggiori
nostri vizi: i mezzi divengono il fine (il potere per il potere) e lo storcono.
Il falso machiavellismo vive a destra, a sinistra, al Quirinale. La questione
morale, poco pragmatica, soffre spregio. Berlinguer la pose nel ’77: nel Pd
vien chiamata una sua devianza fuorviante.
Anche il mito della società civile è
retaggio del ventennio: il popolo è meglio dei leader, i suoi responsi sovrastano
legalmente i tribunali. Democraticamente sovrano, esso incarna la volontà
generale, che non erra. Salvatore Settis critica l’ambiguità di questa formula-
passe- partout: è un’«etichetta legittimante, che designa portatori di
interessi il cui peso è proporzionale alla potenza economica, e non alla cura
del bene comune; tipicamente, imprenditori e banchieri che per difendere
interessi propri e altrui si degnano di scendere in politica» , ritenendo
inabili politici e partiti. Non solo: la società civile «viene spesso intesa
non solo come diversa dallo Stato, ma come sua avversaria; quasi che lo Stato
(identificato con i governi pro tempore) debba essere per sua natura il nemico
del bene comune». (Azione popolare, Einaudi 2012, pp. 207, 212).
Così deturpata, la formula ha fatto
proseliti: grazie all’uso oligarchico della società civile (o dei tecnici), la
politica è vieppiù screditata, la cultura dell’amoralità o illegalità vieppiù
accreditata. Il caso Cancellieri è emblematico: la mala educazione diventa
attributo di un’élite invogliata per istinto a maneggiare la politica come
forza, contro le regole. A creare artificiosi stati di eccezione permanente,
coincidenze perfette fra necessità, assenza di alternative, stabilità.
Simile destino tocca alla laicità, non più
tenuta a bada ma aborrita nel ventennio. Il pontificato di Francesco non aiuta,
perché la Chiesa gode di un pregiudizio favorevole mai tanto diffuso, perfino
su temi estranei alla promessa «conversione del papato». Difficilmente si
faranno battaglie laiche, in un’Italia politica che mena vanto della dipendenza
dal Vaticano. La nuova destra di Alfano è dominata da Comunione e Liberazione.
Dai tempi di Prodi, i democratici evitano di smarcarsi sulla laicità. Tutti i
leader del momento (Letta, Alfano, Renzi) vengono dalla Dc o dal Partito
popolare. Diretto com’è da Napolitano, il Pd non ha modo di liberarsi del
ventennio (a che pro le primarie quando è stato il Colle a dettare la linea sul
caso Cancellieri?). Permane la vergogna d’esser stati anticapitalisti,
antiamericani, anticlericali (l’ultima accusa è falsa da sessantasei anni: fu
Togliatti ad accettare l’innesto nella Costituzione dei Patti Lateranensi di
Mussolini).
Infine l’Europa. Nel discorso ai giovani di
Forza Italia, Berlusconi ha cominciato la sua campagna antieuropea, deciso a
svuotare Cinque Stelle. La ricostruzione della sua caduta nel 2011 è un
concentrato di scaltrezza: sotto accusa l’Unione, la Germania, la Francia.
Ancora una volta, con maestria demagogica, ha puntato il dito sul principale
difetto italiano: la Serva Italia smascherata da Dante.
No, Berlusconi non l’abbiamo cancellato.
Perché la società è guasta: «Siamo tutti immersi nella corruzione ». Da un
ventennio amorale, immorale, illegale, usciremo solo se guardando nello
specchio vedremo noi stessi dietro il mostro.
Altrimenti dovremo dire, parafrasando
Remarque: niente di nuovo sul fronte italiano. La guerra civile ed emergenziale
narrata da Berlusconi ha bloccato la nostra crescita civile oltre che
economica, e perpetuato la «putrefazione morale» svelata da Piero Calamandrei.
Un’intera generazione è stata immolata a finte stabilità. La decadenza di
Berlusconi, se verrà, è un primo atto. Sarà vana, se non decadrà anche l’atroce
giudizio di Calamandrei.
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