da: la
Repubblica
Sono d’accordo con
l’auspicio espresso domenica da Eugenio Scalfari: che l’Europa federale nasca,
e la moneta unica si salvi.
In caso contrario
avremo, al posto dell’Unione, tanti staterelli senza lode ma non senza infamia,
non amici ma più che mai vassalli della potenza Usa. Torneremo alla casella di
partenza: vinti dai nostri nazionalismi come nelle guerre mondiali del ’900.
Sono meno d’accordo
con il giudizio severo sui movimenti di protesta che ovunque nascono contro
l’Europa come oggi è fatta, e ho un’opinione assai meno perentoria su 5 Stelle.
Chi ascolti Grillo con cura sarà certo colpito dalle sue incongruenze; specie
quando indulge alla xenofobia, procacciatrice di voti. Ma non s’imbatterà nel
nazionalismo, né in vero antieuropeismo. Populismo è un’ingiuriosa parola
acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è
sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in
uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio ( Micromega 4-13). Serve a
confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa
malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, nell’intervista alla Stampa
di venerdì.
Qualche giorno fa
Grillo ha detto sulla crisi dell’Unione cose sensate, che nessun nazionalista
direbbe: un’Europa che si dotasse di strumenti finanziari (tra cui gli
eurobond), e che mettesse in comune i debiti, potrebbe far molto per superare
le difficoltà e salvare se stessa. Purtroppo c’è nel M5S chi propugna l’uscita
dell’Italia dall’Euro, fantasticando di rimettere sul trono i re nazionali.
Questo significa che Grillo esita a compiere scelte forti, quasi fosse già
stanco all’idea di divenire un leader che educhi, unifichi. Non significa che i
5 Stelle siano assimilabili a Marine Le Pen, o ai neo-nazisti in Grecia e
Ungheria. Anche se il protezionismo mentale li tenta, è difficile immaginare
che un movimento nato dalla congiunzione di iniziative cittadine del tutto
estranee al nazionalismo sfoci in destra estrema.
La questione di
fondo è dunque un’altra. Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa
cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria
è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E
la risposta è inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili
vengono espulse come grumo compatto che intasa chissà quale progresso.
Bollare un intrico
di sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni
cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi
attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e
conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati
dell’Unione. Anche qui vale la pena andare oltre le parole: se si esclude la
Francia, Federazione non è più vocabolo tabù. Molti oggi l’invocano. Ma senza
che al verbo seguano atti concreti: la messa in comune dei debiti, una crescita
alimentata da eurobond e da risorse europee ben più consistenti di quelle
odierne. E ancora: un Parlamento europeo con nuovi poteri, e una Costituzione
comune che sia espressione dei cittadini. Un’Europa che sia per loro un rifugio
in tempi di angoscia, e non il guscio che protegge un’endogamica oligarchia di
potenti che si blindano a vicenda.
L’Europa così com’è
non è minacciata dalla rabbia (di destra e sinistra) dei propri cittadini. È
minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma
usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008
la tormenta smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua
povertà e disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact)
che nessun
Parlamento ha potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è
questa. È la miseria greca; sono gli occhi che spiano il debole, come nei
Salmi. È la corruzione dei governi, che si ciba di disuguaglianze e di falsa
stabilità.
Il caso delle
sinistre radicali in Grecia è esemplare. Il Syriza, una coalizione di movimenti
cittadini e gruppi di sinistra, fu bollato come antieuropeo e populista, nelle
due elezioni del maggio-giugno 2012. Le cancellerie europee si mobilitarono,
dipingendo Syriza come orco da abbattere. Berlino minacciò di chiudere i
rubinetti degli aiuti. Ma né Syriza né Alexis Tsipras che lo guida sono
antieuropei. Chiedono un’altra Europa, sì, e questo atterrisce l’establishment.
Il 20 settembre,
presentando il proprio programma al Kreisky Forum di Vienna, Tsipras ha
sorpreso chi l’aveva infangato. Ha detto che l’architettura dell’euro e i piani
di salvataggio hanno sfasciato l’Unione, invece di bendarne le ferite. Ha
ricordato la crisi del ’29, i dogmi neoliberisti con cui fu gestita. Proprio
come accade oggi, «i governi negarono l’architettura aberrante dei loro
disegni, insistendo sull’austerità e sul mero rilancio dell’export». Ne risultò
miseria, «e l’ascesa del fascismo in Sud Europa, del nazismo in Europa centrale
e del nord». È il motivo per cui l’Unione va fatta da capo. Riprendendo le idee
dei sindacati tedeschi, Syriza propone un Piano Marshall per l’Europa,
un’autentica unione bancaria, un debito pubblico gestito centralmente dalla
Banca centrale europea, e un massiccio programma di investimenti pubblici
lanciato dall’Unione.
Ma Tsipras dice
qualcosa di più: c’è un nesso che va denunciato, tra la crisi europea e le
corrotte democrazie di Atene e di tanti Paesi del Sud. «La nostra cleptocrazia
ha stretto una solida alleanza con le élite europee », e il connubio si nutre
di menzogne sulle colpe greche o italiane, sui salari troppo alti e lo Stato
troppo soccorrevole. Le menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze
nazionali dalle spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora
duramente».
È un’alleanza che
non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni
’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza
rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono
esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli
astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale
ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece
un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il
dopoguerra e la fine degli anni ’70. Questo dice Tsipras. Cose simili, anche se
più caoticamente, dice Grillo.
Se nulla si muove
l’Europa sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in
piedi da élite di consanguinei –che campano di favori personali fatti e
ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una
ripresa smentita dai fatti – l’edificio somiglia sempre più all’Ufficio delle
Lettere morte custodito da Bartleby lo scrivano, nel racconto di Herman
Melville.
È sfogliando e
gettando al macero migliaia di lettere spedite e mai recapitate che Bartleby
matura il suo impallidito rifiuto, che a un certo punto lo indurrà a rispondere
«Preferirei di no», con cadaverica tranquillità, a qualsiasi ordine o domanda.
Ecco, l’Europa è oggi quell’Ufficio che ha trasformato il suo impiegato in un
infelice: «Lettere morte! (…) Talvolta dalle pieghe del foglio il pallido
impiegato estrae un anello: e il dito cui era destinato forse già imputridisce
nella tomba; una banconota inviata con la più tempestiva delle carità: e colui
che ne avrebbe ricevuto giovamento ormai non mangia più, non soffre più la
fame; un perdono per coloro che morirono nello scoraggiamento; una speranza per
quelli che morirono senza sperare; buone notizie per quelli che morirono soffocati
da non alleviate calamità. Messaggere di vita, queste lettere precipitano nella
morte. O Bartleby! O umanità!».
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