da: la
Repubblica
Il problema non è che
i nostri "cervelli" se ne vanno. Ma che non ritornano. E poco si fa
per indurli a rientrare. O per attirarne altri di eguale qualità. Importiamo
lavoratori poco qualificati. Ed esportiamo i nostri figli
La fuga dei cervelli.
È la formula usata per evocare la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto
profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi. Non solo europei. Dove
trovano occupazione e riconoscimento. Fuga dei cervelli. È un'espressione che
non mi piace. Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono
sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. L'unica
gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo.
Se i
"cervelli" se ne vanno dall'Italia è perché fuggono dal loro
"corpo". Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno:
di "operare". Di utilizzare la loro opera. L'Italia è un Paese
vecchio (dati Istat, 2012). Il più vecchio d'Europa. Dopo la Germania, che,
però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli
altri Paesi. Compreso il nostro.
Il problema è che noi
non ci accorgiamo di invecchiare. Perché siamo sempre più vecchi. Così ci
immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di
invecchiare. Secondo gli italiani - come ho già scritto altre volte - per dirsi
vecchi occorre aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata
media della vita, dunque, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la
morte.
I giovani, in Italia,
sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i
più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da
qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non
hanno modificato la nostra auto-percezione. Perché Noi continuiamo a
invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri
termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli
Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani,
da più generazioni. Anche quando diventano ministri...
Così invecchiamo senza
accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell'assistenza e
nella sanità, com'è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione,
nell'università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l'iniziale
minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro - ai figli e ai
giovani - ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 fra 18 e 38
anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011).
Sottolineo: non "vivono" ma "risiedono". Cioè: fanno
riferimento a un'abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia
sempre più precaria e intermittente.
I dati, a questo
proposito, sono espliciti e crudi. L'Italia è il Paese con il più alto tasso di
disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in
ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il
50%. Non solo, l'Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e
non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei paesi dell'Ocse, dopo il
Messico.
I giovani: una
generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza,
come un tempo. Così, non hanno peso politico. I genitori, sempre più anziani,
si incazzano, per questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo
inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i
figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli
(unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro
- i genitori - resterebbero soli.
Così, i giovani,
peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato il
neologismo (quasi un ossimoro) "giovani adulti" per definire coloro
che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo,
non debbono affrontare l'esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi
dell'Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra
e dalla povertà. I "nostri" giovani se ne vanno con il sostegno delle
famiglie. Addestrati da periodi di studio all'estero (Master, Erasmus),
trascorsi durante e dopo l'università. Cercano e spesso trovano occupazione. In
alcuni casi, di livello elevato. Perché i "giovani cervelli", in
Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante
gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di
qualità. Apprezzati. Fuori dall'Italia.
Così si spiega la
crescita continua degli italiani che si trasferiscono all'estero. Quasi 80
mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati Aire elaborati da Radio 24).
Di fatto, circa il doppio. Al loro interno, i giovani - più o meno adulti -
sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in
Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina e negli
Usa.
Non è una fuga, ma la
ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più
aperti - per chi non proviene dai Paesi poveri. E i "cervelli" sono
sempre ben accolti. Questo è il problema, per l'Italia. Non che i nostri "cervelli"
se ne vadano. Ma che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per
attirarne altri, di eguale qualità. Perché noi importiamo lavoratori a bassa
qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli. Perdiamo i giovani e i cervelli.
Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e
le loro competenze. Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti
i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra
partire. Dall'Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l'età e le rughe in modo
artefatto - e un po' patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare.
Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde
soltanto il futuro.
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