Il mio interesse
per il calcio sta tra lo 0 e 1. Con ciò, questo Mourinho è uno con personalità.
E ha “fatto del bene” soprattutto a una categoria: i giornalisti sportivi o
presunti tali italiani.
da: Corriere della Sera
Mourinho: «In 10 anni nessuno come me»
«La gente si dimentica di quelli che perdono»
«Benissimo. Siamo
in testa alla Liga, abbiamo ottime possibilità di entrare in semifinale di
Champions. Va benissimo».
Eppure le critiche non mancano.
«Ci sono abituato,
nel mondo del calcio sono criticato se dico bianco o se dico nero, se parlo
dopo una partita o se sto zitto dopo una partita. Ogni tanto mi sento perso
perché non so che direzione devo prendere: sono sempre criticato, in qualunque
caso».
Ci ha fatto l'abitudine?
«Sì, è il mio
lavoro, anche se a volte non ho la certezza di essere rispettato».
Chi invece la rispetta?
«Sicuramente i
miei giocatori. Sicuramente i miei figli e la mia famiglia».
Come si ottiene il rispetto da parte dei giocatori?
«I calciatori sono
persone che hanno tutto. Hanno status. Sono intelligenti. Studiano. Hanno
accesso a tutto.
Sanno cos'è un allenatore preparato. E sanno anche cos'è un allenatore non tanto preparato. Sanno cos'è un allenatore onesto. Sanno tutto di noi. E penso che il modo per ottenere il loro rispetto sia innanzitutto rispettare loro. E io rispetto i calciatori più di qualsiasi altra cosa nel calcio».
Sanno cos'è un allenatore preparato. E sanno anche cos'è un allenatore non tanto preparato. Sanno cos'è un allenatore onesto. Sanno tutto di noi. E penso che il modo per ottenere il loro rispetto sia innanzitutto rispettare loro. E io rispetto i calciatori più di qualsiasi altra cosa nel calcio».
Lei ha allenato e vinto in Paesi diversi. Come ha
trasmesso la sua cultura vincente in culture così diverse?
«Prima di tutto bisogna essere un po' fortunati».
«Prima di tutto bisogna essere un po' fortunati».
E lei si ritiene un uomo fortunato?
«Molto fortunato,
ho avuto la possibilità di lavorare con persone fantastiche».
Parliamo delle sue squadre.
«Io credo che non
si possa cambiare completamente la personalità delle persone. Quando entri in
una squadra, cerchi di tirar fuori il meglio dalle persone con cui lavori.
Quando acquisti un giocatore puoi provare a raccogliere informazioni su di lui,
sulla sua personalità, sul carattere, ma comunque devi essere fortunato. Lo
conoscerai solo quando ci lavori insieme».
E come sono le persone con cui ha lavorato?
«Fantastiche. Al
Chelsea la metà della squadra era africana ed è stato qualcosa di unico: 12
giocatori africani che con 11 europei hanno creato un gruppo fantastico.
All'Inter c'erano sette-otto giocatori argentini, una famiglia incredibile. Non
ho sentito, non ho mai sentito, assolutamente mai sentito, una famiglia come
quella».
Pare che a quel gruppo lei manchi ancora...
«E loro mancano a
me».
Come si costruisce un gruppo vincente?
«La cosa
importante è comunicare con loro nella lingua locale, spagnolo in Spagna,
inglese in Inghilterra, non puoi usare un altro linguaggio. Allo stesso tempo
penso che sia buono conoscere diverse lingue per le conversazioni private con i
giocatori. Quando sei in privato con loro e non in gruppo, poter comunicare con
loro nella loro lingua è davvero importante per riuscire a costruire una
relazione diversa».
Lei si sente un vincente?
«Io sono un
vincente».
Che cosa la rende Speciale rispetto ad altri
allenatori?
«Penso che gli
allenatori siano concentrati sulle vittorie, sui titoli, sui risultati. Questo
è quello che fa la storia. Negli ultimi dieci anni nessuno ha vinto tanti
titoli quanto me, essere speciale è tutto questo».
Le pesa, ogni tanto, il soprannome Special One?
«Non mi sembra un
soprannome negativo, quindi...».
...quindi non le pesa, anche perché se lo è dato lei.
«Appunto».
Che cos'ha di speciale, José Mourinho?
«Essere speciali
nel calcio significa vincere. La gente dimentica i perdenti. Lo dicevo la
scorsa stagione quando abbiamo perso la semifinale con il Barcellona. I tifosi
mi dicevano: la gente non dimenticherà mai perché abbiamo perso, il gol
annullato a Higuain, i cartellini rossi... E io rispondevo: sì, la gente
dimentica. In un paio d'anni la gente non ricorda più che cosa è successo,
ricorda solo chi vince. Così se tu puoi vincere devi vincere, e vincere, e
vincere ancora. Vincere tutto è impossibile. Ma se lo fai regolarmente, allora
quello rimane nella storia».
E come lo è diventato, un vincente?
«Non so. Penso di
essere stato competitivo fin da bambino, tutto per me era competizione, anche
le cose più semplici. E quando sei in competizione, vuoi vincere. Penso che sia
qualcosa con cui sono nato».
Con chi si sente in competizione?
«Sfido me stesso,
più di quanto non sfidi gli altri. Cerco sempre di fissare obiettivi difficili,
penso di essere sempre in competizione con me stesso».
«Sento il rumore dei nemici...». Se la ricorda questa
frase?
«Certo».
Lei ha bisogno di avere nemici per dare il massimo?
«È meglio. Non
penso che sia cruciale, ma è meglio. Specialmente quando sei in un momento di
successo e hai la tendenza a rilassarti: se tu senti quel rumore, se senti che
stanno cercando di approfittare di un tuo momento di difficoltà, questo aiuta.
Sì, preferisco averne».
E ne ha molti?
«Attenzione,
voglio precisare che la parola nemico non è una parola riconducibile alla mia
vita privata: quando dico nemico mi riferisco al calcio. Fin da bambini ci
mettiamo in competizione, e anche i miei amici in quel momento sono miei
nemici. L'adrenalina è qualcosa di cui il tuo corpo ha bisogno, e per evitare
di rilassarsi preferisco che si senta un po' di rumore di nemici».
A proposito di frasi celebri: vogliamo parlare di
«zero tituli»?
(risata)
«Parliamone».
Quanto aveva pianificato quell'uscita in conferenza
stampa?
«Io pianifico
sempre le conferenze stampa. Quando c'è la partita sono focalizzato sulla
partita, quando c'è l'allenamento sull'allenamento, quando devo parlare so
esattamente quello che devo dire».
Quella frase è diventata un mantra, in Italia. Come è
nata?
«Eravamo in un
momento cruciale della stagione, potevamo vincere tutto o niente, Roma, Juve e
Milan ci inseguivano in campionato. Noi dovevamo giocare la finale di Coppa
Italia con la Roma e in Champions eravamo ai quarti, ancora lontani dal
vincerla. Avevo bisogno di mettere un po' di pressione sugli altri e fargli
capire che poteva succedere a loro di vincere zero titoli».
Ed è accaduto. Quando si è reso conto di aver creato
un tormentone?
«Un paio di giorni
dopo la conferenza stampa, arrivo ad Appiano Gentile e al cancello vedo un
gruppo di ragazzi che vendeva magliette che mi corre incontro e mi lancia tre
t-shirt attraverso il finestrino aperto. ''Mister, mister, grazie'', mi dicono.
''Grazie de che?''. Mi mostrano la maglietta con la foto delle manette e la
scritta zero tituli e dicono ''ne stiamo vendendo tantissime''. ''Mi fa
piacere'' ho risposto».
Bei tempi, quelli dell'Inter. Le cose ora sono un po'
cambiate.
«Lo so. Sono il
primo tifoso dell'Inter».
Questo lo ha sempre detto. Ha anche detto che l'Inter
è la sua casa e prima o poi a casa si ritorna.
«È vero, l'ho detto».
«È vero, l'ho detto».
Più di un tifoso nerazzurro spera che questo ritorno
sia più prima che poi...
«Se è un modo per
chiedermi del mio futuro, rispondo che è un argomento su cui non c'è nulla da
dire. Ho altri due anni di contratto con il Real e non ho mai detto che non
sarei rimasto a Madrid».
Messaggio ricevuto. Si sente ancora leader di questo
Real?
«Assolutamente».
È facile per lei essere leader?
«Più che facile, è
naturale per me. È diventato il mio lavoro da molti anni. Quando entro in un
centro d'allenamento so chi sono e quello che le persone si aspettano da me.
Durante il mio lavoro io so che devo comandare. È qualcosa di naturale, non
sento la pressione, devo comandare. E quando sono in vacanza, questa sensazione
mi manca».
Lei è diventato un personaggio anche grazie al look,
non a caso è diventato testimonial di diversi marchi.
«Io credo che per fare l'allenatore servano capacità, leadership e lavoro. Non si vince per una giacca o un taglio di capelli o una buona capacità di comunicare».
«Io credo che per fare l'allenatore servano capacità, leadership e lavoro. Non si vince per una giacca o un taglio di capelli o una buona capacità di comunicare».
Il suo cappotto è esposto nel museo del Chelsea.
«È una storia divertente.
Quel cappotto che avevo indossato per due stagioni, un cappotto Armani, lo
avevo messo all'asta per raccogliere fondi per una fondazione che aiutava i
bambini malati di cancro, fondazione di cui io e la signora Blair eravamo
ambasciatori. Un signore l'ha acquistato, pagandolo un bel po', e se l'è
portato a casa. Poi però si è reso conto che il cappotto non era suo, ma del
Chelsea, della storia del Chelsea e ha deciso di donarlo al museo. Ora il
cappotto è là, come le scarpe di Lampard o di Drogba. Sono felice di averlo
messo all'asta e ancora più felice che quel signore abbia deciso di donarlo al
museo».
Il suo è un look costruito?
«Per carità! Non
mi interessa vestirmi per gli altri, mi vesto per sentirmi comodo. Mi puoi
vedere un giorno con un bel vestito, ben rasato, e un altro giorno quasi come
fossi in pigiama, ciabatte e pantaloncini corti. Adidas, magari, la mia marca
preferita fin da quando ero bambino. Ho speso un sacco di soldi prima di essere
sponsorizzato da loro ed è giusto che adesso loro mi ripaghino con gli
interessi. Comunque no, non mi sento un uomo alla moda».
Discute mai negli spogliatoi?
«Capita».
E se dovesse ricordarne una, di discussione, quale
ricorderebbe?
«Forse quella con
Ibrahimovic, l'unica che ho avuto con lui. È durata 5 minuti. Lui voleva andare
al Barcellona per vincere la Champions, io ero arrabbiato con lui e gli dicevo:
stai qui e vincila con l'Inter».
Ha avuto ragione lei.
«E mi è spiaciuto
per Ibra, perché lui è un giocatore e un ragazzo incredibile, il tipo di
ragazzo che adoro, che ha una vita fantastica al di fuori del calcio con la sua
famiglia. Lui vive per la famiglia, per il calcio, è un vincente».
I detrattori di Ibrahimovic sottolineano che in
Europa non ha vinto nulla...
«Mi spiace che
qualche volta le persone si dimentichino che cosa ha fatto questo ragazzo, ha
vinto 9 campionati di fila, nessuno deve dimenticarlo. Gli dico questo: è
ancora in tempo per realizzare i suoi sogni con la Champions, visto che è
l'ultimo trofeo che gli manca».
Ibrahimovic parla soltanto bene di lei, come
praticamente tutti i calciatori che ha allenato...
«Io credo che i
calciatori sappiano istintivamente se li rispetti. E quando li rispetti, la
questione non è giocare o non giocare, se sono titolari o meno. I calciatori sentono
che li rispetti. I calciatori devono poter sentire che li spingerai a fare
meglio. E quando gli dai questo, il rispetto diventa reciproco».
Sente più responsabilità nel gestire i suoi
calciatori o i suoi figli?
«Assolutamente più
responsabilità con i miei figli, anche se con loro ho la parte più facile».
In che senso?
«Nel senso che è
la mamma a svolgere il compito più difficile: educarli. Per il mio lavoro io
non sto molto con loro e quando sono a casa, più che educarli cerco di
godermeli il più possibile».
Il maschio gioca a calcio?
«Sì».
Nel Real Madrid?
«No, impossibile.
Lasciamo i bambini fuori dalla pressione e dalle maldicenze, loro hanno bisogno
di divertirsi».
Qual è la cosa più importante che cercate di
insegnare ai vostri bambini?
«Io e mia moglie
vogliamo che siano gentili, che capiscano che il mondo reale non è il loro
microcosmo. E vogliamo che siano felici. Vogliamo dar loro le condizioni
essenziali per far sì che diventino quello che vogliono essere. Nient'altro.
Non voglio che mio figlio diventi un top player. Al contrario. Devono studiare,
formare se stessi, la mamma è molto onesta e severa con loro e ho paura, visto
che sto nel mondo del calcio, che molti genitori vedano la scuola come un
problema perché per quei bambini il calcio è la cosa più importante. Mia
moglie, quando parla a scuola con gli insegnanti, prima di tutto chiede sempre
una cosa: i miei figli sono stati gentili?».
Lei ha detto che solo le sue due famiglie, quella
vera e quella dei suoi calciatori, conoscono la sua vera faccia. Al mondo invece lei che faccia mostra?
«Questa. La faccia
che io voglio mostrare è quella che mostro. È la faccia dell'allenatore,
dell'uomo competitivo, di un uomo di calcio. Di uno che fa il proprio lavoro al
meglio possibile. Le persone che mi conoscono vogliono vivermi come un
privilegio. Non credo che la mia famiglia e i miei amici sarebbero contenti che
condividessi con tutti il mio vero io. Per tutti gli altri io sono un uomo di
calcio e nient'altro».
A proposito di calcio. Lei una volta ha dichiarato
«chi sa solo di calcio non sa niente di calcio». È davvero così?
«Quando l'ho
detto, intendevo che conoscere solo il pallone non basta per diventare un bravo
allenatore. Devi capire di biochimica, biologia, anatomia, statistica,
leadership... ci sono molte aree che ti aiutano a diventare un tecnico
migliore. Per quanto riguarda i calciatori, credo che una base di cultura
generale sia fondamentale perché i giocatori oggi sono molto diversi da quelli
di 30-40 anni fa. Quando li alleni non puoi dire loro soltanto ''calcia il
pallone in quel modo'', perché loro ti guardano come qualcuno che può elevarli
anche intellettualmente».
Si ricorda il motto «motivazione + ambizione...
«Certo, sono
passati tanti anni...».
...+ spirito di squadra = la filosofia di Mourinho:
successo»?
«Era una frase
motivazionale che ho scritto molti anni fa e che vale ancora. I ragazzi devono
sentire che avere qualità e talento non è più sufficiente. La vita agonistica
di un calciatore è circoscritta a 10 anni, non a 50: in 10 anni devi cercare di
ottenere il massimo, in termini economici, di prestigio, di autostima, di
risultati, perché tutto corre molto in fretta. Qualcuno dei miei giocatori ha
già terminato la carriera e tutti mi dicono le stesse cose: è passato così in
fretta, sembra ieri, non posso crederci, due giorni fa ero un giovane ragazzo e
ora ho finito la carriera».
Quindi?
«Quindi devo persuadere questi ragazzi che devono vivere per il calcio, che non devono sprecare il proprio talento. Se non hai talento ok, ma se Dio ti ha dato un talento e non lo tieni stretto con entrambe le mani, allora...».
«Quindi devo persuadere questi ragazzi che devono vivere per il calcio, che non devono sprecare il proprio talento. Se non hai talento ok, ma se Dio ti ha dato un talento e non lo tieni stretto con entrambe le mani, allora...».
Ne ha visti tanti di giocatori sprecare il proprio
talento?
«Uhhh,
tantissimi...».
Sta pensando per caso a un calciatore che adesso
gioca a Manchester?
(sorriso)
«...tantissimi».
Quali sono i prossimi obbiettivi di Mourinho?
«Nel calcio sono
tre, tutti molto difficili. Essere l'unico ad aver vinto la Champions con tre
squadre differenti. Essere l'unico ad aver vinto i tre campionati più difficili
del mondo, Inghilterra, Italia e Spagna. Essere tra qualche anno il primo a
vincere qualcosa con la nazionale portoghese».
E nella vita?
«Soltanto stare in
salute, vedere che le persone che amo sono in salute, godermi la mia famiglia,
mia moglie, i miei bambini e un domani i bambini dei miei bambini».
E che cosa vorrebbe che si dicesse di José Mourinho
quando si ritirerà?
«Un uomo di calcio
che ha fatto al meglio il proprio lavoro».
Roberto De Ponti
foto da: calciosport24
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