da: Il Fatto
Quotidiano
Lavoro: la truffa del reintegro (Bruno Tinti).
Non avrei mai
pensato di rivolgere al presidente Monti e al ministro Fornero la stessa
domanda (retorica) tante volte fatta a B&C: ma ci siete o ci fate? E
invece… L’art. 14 comma 7 del ddl sulla riforma del lavoro (Tutele del
lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) dice: “il giudice che
accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo (sarebbe il licenziamento per motivi
economici) applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del medesimo
articolo” (il reintegro). E, poco più avanti: “nelle altre ipotesi in cui
accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il
giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Che consiste nel
dichiarare “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del
licenziamento e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità
risarcitoria onnicomprensiva” (l’indennizzo).
TUTTO RUOTA intorno
a due paroline: “manifesta insussistenza”. Cosa vogliono dire? In
linguaggio comune è semplice: il fatto posto alla base del licenziamento non
esiste; perciò il lavoratore va reintegrato nel posto di lavoro, poche storie.
Ma, per un giurista, l’insussistenza
senza aggettivi è cosa diversa dall’insussistenza “manifesta”. Il giurista
si chiede: ma perché questi hanno sentito il bisogno di scrivere che
l’insussistenza deve essere “manifesta”? Un
fatto o sussiste o non sussiste; quanto sia complicato accertare che esista
non incide sulla sua esistenza, solo sulla difficoltà della prova. Per capirci
meglio, un assassino va condannato sia che lo si becchi con il coltello
sanguinante in mano, sia che la sua responsabilità emerga dopo un complicato
lavoro di indagine (movente, alibi, testimonianze etc). Dunque, pensa il
giurista, questi hanno scritto “manifesta insussistenza” proprio per
differenziare questi casi da quelli in cui c’è l’insussistenza semplice; e per
differenziare il trattamento conseguente, reintegro nel primo caso, solo
indennizzo nel secondo.
Come tecnica
legislativa non è una novità. Quando, in
un processo, si solleva un’eccezione di illegittimità costituzionale, il
giudice la accoglie solo quando la questione non è “manifestamente infondata”.
Se è sicuro che la legge è conforme alla Costituzione, respinge l’eccezione.
Insomma, solo quando il giudice ha qualche dubbio sulla costituzionalità della
legge (o, naturalmente, quando è sicuro che sia incostituzionale), chiede alla
Corte costituzionale di valutare. Ne deriva che la Corte non riceve tutte le
questioni di illegittimità costituzionale ma solo quelle che i giudici
ritengono “non manifestamente” infonda-te. Può darsi che tra le altre, quelle
che il giudice ha respinto (sbagliando), ce ne fossero di fondate; ma la loro
fondatezza non era “manifesta”; e quindi…
Tornando all’art. 18, siccome i criteri di interpretazione giuridica
delle leggi questi sono (art. 12 del codice civile), ne deriva che il giudice
potrà reintegrare il licenziato solo quando, da subito, senza indagini, senza prove, “manifestamente” appunto, è
sicuro che il motivo economico non sussiste. Se invece dubita, se per
decidere deve acquisire prove, allora niente reintegro. E cosa al suo posto? Ma
è chiaro, l’indennizzo. E infatti Monti-Fornero lo dicono espressamente: “nelle
altre ipotesi”, cioè quando l’insussistenza del motivo economico va accertata
con una normale istruttoria dibattimentale (prove, testimonianze, perizie ),
quando dunque non è “manifesta”, di reintegro non se ne parla. Magari alla fine
salterà fuori che il motivo economico non c’è; ma, siccome è stato necessario
un vero e proprio processo per rendersene conto, niente reintegro, solo un po’
di soldi. Da qui derivano tre
conseguenze micidiali.
LA PRIMA: il
reintegro per motivi economici non ci sarà mai. Davvero si può pensare che
un’azienda licenzi con motivazioni che da subito, senza alcun dubbio,
“manifestamente”, si capisce che sono una palla? Se anche la motivazione
economica è infondata, sarà certamente motivata bene; e quindi sarà necessario
un normale processo, come si fa sempre. Solo che, a questo punto,
l’insussistenza del motivo economico, anche se accertata, non è “manifesta”; e
il lavoratore non potrà essere reintegrato.
La seconda: i giudici saranno in un mare di guano. Perché, in alcuni
casi, l’insussistenza del motivo economico ci sarà; ma, per essere sicuri, un
po’ di istruttoria va fatta. Un giudice non può dire: “È così’”. Deve motivare
perché è così; e per questo è necessaria l’istruttoria. Ma, se la fa, addio
reintegro. Mica male come dilemma.
La terza: a seconda dell’interpretazione che il
giudice darà del concetto “manifesta insussistenza” gli diranno che è
uno sporco comunista o uno sporco capitalista. Della serie: “Se la mente del
giudice funziona, la legge è sempre buona” (Snoopy sul tetto della sua cuccia).
“Certo che con questi giudici… ; anche le leggi migliori, che il sindacato si è
ammazzato per ottenerle (o che il governo si è dannato per scriverle), non
funzioneranno mai. La responsabilità per gli errori dei magistrati, ecco quello
che ci vuole”.
Ma, a questo
punto: davvero Camusso & C, Bersani
& C, a tutto questo non ci hanno pensato? O si sono accontentati di una (finta) dimostrazione
di forza, del tipo: “Abbiamo costretto il governo etc etc; guardate come
siamo bravi”?
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