Il
calcio gioca in rosso in tre campionati un miliardo di perdite
di Ettore Livini
Debiti al livello di guardia. Conti in profondo rosso e sotto il faro
delle istituzioni internazionali. Performance sul campo che ci fanno rischiare
la maglia nera nel Vecchio continente. Il calcio è lo specchio della società. E
la Serie A, tanto per non smentire i dogmi della sociologia, è l’immagine in
fotocopia (governo tecnico a parte) dello stato di salute dell’Italia.
Desolante. Su 107 club rappresentati in Lega solo 19 lo scorso anno sono
riusciti a chiudere il bilancio in utile. Ci si riempie la bocca di buoni
proposti, obbligatori visto che dal 2015 chi non ha i conti a posto non potrà
partecipare alla Champions League. Alla fine però – come nel Gattopardo – tutto
cambia perché tutto resti come prima: Inter, Juve, Milano, Roma, Lazio e gli
altri team della massima divisione hanno perso nel 20102011 poco più di 1,13
euro per ogni euro che hanno incassato.
Le entrate sono state pari a 2,03 miliardi, in lieve frenata (1,2%) per la prima volta dal 2006. E l’esercizio si è chiuso in rosso per 300 milioni. L’intera galassia del pallone (Serie A, Serie B e Lega Pro comprese) ha perso lo scorso anno 428 milioni, portando a 1,1 miliardi il passivo degli ultimi tre anni. Numeri che in Borsa avrebbero già costretto da tempo l’amministratore delegato dalla Calcio Spa a portare i libri in tribunale.
Mal comune mezzo gaudio, dicono i manager (o presunti tali) al timone di questo Titanic. A tappare il buco sostengono sono i libretti d’assegni dei presidenti e non i soldi dei contribuenti. E le casse dello Stato incassano ogni anno che Dio manda in terra qualcosa come 680 milioni in contributi previdenziali e tasse.
Di più: l’Europa non sta molto meglio. Il business del soccer cresce a vista d’occhio (i ricavi continentali sono
Le entrate sono state pari a 2,03 miliardi, in lieve frenata (1,2%) per la prima volta dal 2006. E l’esercizio si è chiuso in rosso per 300 milioni. L’intera galassia del pallone (Serie A, Serie B e Lega Pro comprese) ha perso lo scorso anno 428 milioni, portando a 1,1 miliardi il passivo degli ultimi tre anni. Numeri che in Borsa avrebbero già costretto da tempo l’amministratore delegato dalla Calcio Spa a portare i libri in tribunale.
Mal comune mezzo gaudio, dicono i manager (o presunti tali) al timone di questo Titanic. A tappare il buco sostengono sono i libretti d’assegni dei presidenti e non i soldi dei contribuenti. E le casse dello Stato incassano ogni anno che Dio manda in terra qualcosa come 680 milioni in contributi previdenziali e tasse.
Di più: l’Europa non sta molto meglio. Il business del soccer cresce a vista d’occhio (i ricavi continentali sono
arrivati a 12,7 miliardi con un rialzo
medio del 9,1% nell’ultimo lustro), le tv si strappano di mano i diritti in
aste miliardarie. Ma alla fine i conti non tornano per tutti: il 61% dei club
censiti dalla Uefa è in rosso e il sistema calcio dal Portogallo a Mosca, dalle
Far Oer all’Apoel Nicosia macina ogni anno 1,6 miliardi di perdite complessive.
Se le regole sul Fair play volute da Michel Platini fossero entrate in vigore
quest’anno (chi ha i conti in rosso in modo significativo non partecipa alle
competizioni europee) il 55% delle squadre sarebbe stato escluso da Champions e
Europa League. Il dramma dell’Italia è che sul Titanic del calcio il Belpaese
viaggia in terza classe. Sul campo i risultati parlano da soli: non abbiamo più
una squadra nelle competizioni internazionali e siamo scivolati dal nono al
dodicesimo posto nel ranking della Uefa. Sul fronte finanziario e strategico,
se possibile, siamo messi ancora peggio. La nuova legge per agevolare la
costruzione degli stadi di proprietà (l’ancora di salvezza dei big spagnoli,
tedeschi e inglesi) è da anni al palo e solo la Juventus è riuscita a mandare
in porto il progetto. E senza i ricavi generati dalla gestione di queste
strutture è ben difficile far quadrare i conti.
Guardiamo i numeri. Le vendite di biglietti e i servizi allo stadio sono ormai
un business marginale per i club. Lo scorso anno sono state pari al 10% circa
delle entrate, una percentuale ridicola rispetto al 33% generato da Manchester
United & C., proprietari dei loro campi. Non solo. Tessera del tifoso,
tornelli e stadi vetusti tengono lontano i tifosi dagli spalti. Nel 20102011
gli spettatori paganti sono calati dell’8,2%, un segnale allarmante, e il tasso
di riempimento medio degli stadi della Serie A si è fermato a un modesto 56%.
Certo non è colpa dei prezzi visto che il costo medio di un biglietto per la nostra
massima divisione è di 20 euro circa contro i 50 della Liga spagnola e i 48
della Premier League. Che possono permettersi di far pagare queste cifre grazie
alla qualità dei servizi offerti.
Sul fronte delle entrate, dopo la corsa degli ultimi anni, segnano il passo
anche i ricavi per diritti tv, che pure rappresentano ormai la metà del
fatturato della Serie A. A far lievitare gli introiti fino a oggi è stata la
sfida a colpi di rilanci tra Sky e Mediaset per aggiudicarsi l’onore di
trasmettere le dirette delle partite. Una concorrenza che aveva fatto bene alle
casse dei club. Oggi però le cose stanno iniziando a cambiare. La redditività
del Biscione perde colpi, l’esperimento della pay tv sul digitale segna il
passo, almeno sotto il profilo dei risultati economici. E il rischio (per il
nostro calcio) è che le aste del futuro possano essere al ribasso. Con una
sorta di monopolista le tv satellitari di Rupert Murdoch a dettare le regole
del gioco.
Un’azienda normale, davanti a una fotografia di questo tipo, sa cosa deve fare
per far quadrare i conti: se le entrate non salgono, l’unica soluzione è
tagliare i costi. Ridimensionando in particolare gli stipendi per i giocatori,
di gran lunga la spesa più importante per una squadra di serie A. Anche qui da
anni fioccano i buoni propositi. Ma risultati zero: lo scorso anno su ogni 100
euro incassati dai nostri club, ben 69 sono stati utilizzati per le buste paga
della rosa. Più o meno lo stesso livello degli ultimi cinque anni. In Europa
(dove il 10% dei team paga più stipendi del suo fatturato) non va molto meglio,
ma almeno siamo a quota 64. Non serve una laurea alla Bocconi per capire che
con questo sbilancio dei conti non si va troppo lontano. E infatti oltre a 300
milioni di perdite, il massimo campionato tricolore è riuscito nel bel
risultato di mettere assieme anche 2,6 miliardi di debiti. Una zavorra che
prima o poi rischia di mandarlo definitivamente a fondo.
I nodi, come vaticina da tempo Platini, verranno al pettine nella stagione
20132014. Tra due anni i numeri di bilancio non saranno più un’opinione ma il
biglietto da visita necessario per poter accedere all’Europa che conta. Quella
dei tornei continentali che, oltre che a tanto prestigio, portano pure molti
soldi. Allo stato l’Italia, al di là del declassamento subìto nel ranking,
rischia di rimanere fuori da ogni torneo. Ed è in buona compagnia. Barca e Real
Madrid dominano la scena continentale sul campo. Ma quanto a stato di salute
finanziario non sono poi messe molto meglio dei nostri club. I debiti della
Liga, secondo uno studio dell’Università di Barcellona, viaggiano alla quota
stratosferica di 3,5 miliardi. Troppi per sperare di riportare la barca a
livello di galleggiamento entro il 2014. Tanto che il Governo di Madrid,
impegnato in questi giorni nella terza manovra che chiederà sacrifici ai suoi
cittadini, sta studiando un condono fiscale da 680 milioni di euro in favore
delle squadre di calcio per non rompere uno dei pochi giocattoli rimasti agli
spagnoli.
Il calcio italiano invece potrà contare solo sulle sue forze. E il problema è
che anche i Paperoni di una volta, quei presidente pronti a spendere decine di
milioni per la passione del pallone, ormai non esistono più. Moratti deve fare
i conti con i guai della Saras, Silvio Berlusconi ha già le sue belle gatte da
pelare con Mediaset, la Juve che pure con lo stadio di proprietà è anni luce
davanti agli altri non può permettersi colpi di testa come Lazio, Napoli e
Roma. E il futuro prossimo venturo allora ha le carte segnate. O un percorso di
decrescita del calcio tricolore (magari finalmente farà emergere qualcuno dai
vivai) o l’arrivo nella penisola di quei nuovi ricchi, russi, cinesi e arabi in
testa, che già hanno cambiato il volto proprietario del soccer nel resto del
continente.
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