giovedì 26 aprile 2012

Il muro di gomma di Formigoni

da: http://www.repubblica.it/

Formigoni, quel muro di gomma eretto di fronte alle domande
di Massimo Giannini

Roberto Formigoni ha sprecato la sua grande occasione. A "Matrix", due sere fa, avrebbe potuto esibire la prova "regina", che fuga ogni ragionevole dubbio sulla sua onestà politica e sulla sua dirittura morale. Sarebbe stato sufficiente esibire la copia di un estratto conto, che confermasse con assoluta certezza la falsità di ciò che invece si sospetta, e cioè che l'amico Pierangelo Daccò, faccendiere in combutta con le aziende sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia, gli ha pagato le vacanze a cinque stelle ad Anguilla per tre capodanni consecutivi. E invece il Celeste non l'ha fatto. Perché non vuole, o più verosimilmente perché non può farlo.

Il "governatore di Dio" non solo non ha risposto ad alcuna delle tante domande ancora inevase, che gettano un'ombra sulla sua persona e proiettano una luce sinistra su un Pirellone già oscurato dagli scandali. Si è rimangiato anche quelle poche, e ancora contraddittorie "ammissioni" che gli erano sfuggite finora. Di fronte alle domande di Repubblica, ha eretto un muro di gomma, impastato di arroganza, fantascienza e reticenza.

È arroganza, per un uomo politico obbligato a "rendere conto" ai suoi elettori, rispondere "chi le da l'autorità di rivolgermi domande sulla mia vita privata?" al giornalista che gli chiede dove e con chi abbia trascorso i capodanni 2008, 2009 e 2010. La stessa arroganza dimostrata nel definire "sfigato" il cronista del Corriere della Sera che ha scritto di quelle sue vacanze sospette. Nell'attaccare in conferenza stampa una cronista di

Repubblica, "colpevole" di avergli chiesto chiarimenti su quei "viaggi di gruppo". E infine nello sfilare a un'altra cronista il microfono, per darle "una lezione di giornalismo".

È fantascienza svicolare dalle domande sulla sua "Vacanzopoli" sostenendo che l'intera vicenda è solo "fango mediatico", dietro al quale si nascondono "interessi materiali ed economico-finanziari che vogliono che nell'Italietta non ci siano pIù impedimenti di tipo democratico", e "grandi poteri che pensano di dividersi il Paese a loro piacimento". La solita teoria del complotto, alla quale l'anomala destra italiana di questi ultimi vent'anni ricorre sempre quando non sa come uscire dai suoi incubi. Se è davvero convinto di quello che dice, Formigoni abbia il coraggio di chiamare per nome e cognome "gli interessi economico-finanziari" e i "grandi poteri" che avrebbero deciso di ordire questo "complotto".

È reticenza, infine, non dire nulla sul merito dei racconti riferiti ai pm da Giancarlo Grenci, perché si tratta di "un millantatore che sparge veleno dal carcere", mentre il fiduciario svizzero di Daccò non è in carcere ma è solo indagato, e non ha raccontato bugie ma ha esibito documenti inoppugnabili. È reticenza, soprattutto, ripetere che non intende esibire alcun documento bancario utile a chiudere in un minuto questa Anguilla-connection "perché la Procura non mi contesta nulla".

Dunque, anche Formigoni applica il "modulo" collaudato dal suo ex leader Berlusconi. Finge di non vedere la gigantesca valenza "politica" del caso che lo riguarda, a prescindere dalla sua eventuale rilevanza penale. Non dissipa i dubbi, perché non è in grado di farlo, ma attacca la libera stampa che su quei dubbi lo incalza, com'è giusto in qualsiasi democrazia occidentale. Urla alla "macchina del fango", e gli scaglia contro la "macchina della rimozione". Si appella al popolo sovrano, che lo ha votato, ed è convinto che questo "lavacro" basti a mondarlo da tutto: peccati o reati, azioni od omissioni. Un dispositivo simile a quello dell'Unto del Signore. O del "chierico" di Hegel, che si trasforma in burocrate e per questo è strutturalmente esposto alla tentazione dell'abuso di potere, e all'uso della propria carica per i suoi scopi personali.

Il governatore Celeste è un uomo in fuga. Può continuare a fuggire dalle sue responsabilità. Ma il caso politico che lo riguarda è sotto gli occhi di tutti, e lo insegue ovunque. Lui stesso, da due settimane, quasi non parla d'altro, risucchiato in una spirale di nervosismo crescente. Parla, ma non dice. Per questo, continueremo a rivolgergli la domanda cruciale: signor presidente, perché non vuole o non è in grado di esibire la distinta bancaria dalla quale risulta che lei ha effettivamente rimborsato a Daccò le spese relative ai capodanni 2008, 2009 e 2010?

Il rigore di bilancio non basta
È una bella novità che sia Mario Draghi a suggerire ai governi un «patto per la crescita». Tuttavia il banchiere centrale dell’euro per crescita non intende ciò che intende la gran parte dei politici quando la invoca. Può darsi che una vittoria di François Hollande serva a rimescolare le carte sul tavolo, come in Italia spera oltre alla sinistra anche una parte della destra; purché si abbandonino le chiacchiere da campagna elettorale.

Vale la pena di guardarsi attorno. Non stiamo vivendo solo una crisi dell’euro. La ricetta britannica, austerità di bilancio fondata su tagli alla spesa e politica monetaria spericolatamente espansiva, appariva più efficace; scopriamo adesso che la recessione nel Regno Unito ha andamento e gravità simili a quelli dell’Italia. Né il successo dei partiti populisti è solo conseguenza dell’austerità per salvare l’euro, dato che investe anche Svezia e Danimarca.

Tutti i Paesi avanzati stentano a crescere, oggi. Tutta l’Europa avanzata patisce i traumi dell’immigrazione massiccia e dell’ascesa industriale dei Paesi emergenti. Rivolto ai politici, Draghi insiste: lo sviluppo non arriva né con i deficit di bilancio né con una politica monetaria ancor più espansiva.

Forse il presidente della Bce aveva in mente proprio la sua Italia. Dal Duemila fino alla crisi si sono sperimentati prima gli sgravi fiscali, poi l’aumento della spesa; mentre i tassi di interesse bassi assicurati dall’euro non imprimevano decisivi impulsi a una economia fiacca.

Facile è replicare a Draghi chiedendogli allora che cosa propone. Nelle posizioni del presidente della Bce c’è un inevitabile equilibrismo, stretto com’è tra le pressioni sull’Europa del Fondo monetario (spalleggiato da Usa e Paesi emergenti) e i no della Germania e della Bundesbank. Manca la risposta a una questione chiave posta dal Fmi: l’austerità di bilancio è davvero necessaria anche nei Paesi con i conti in ordine, come la Germania e l’Olanda?

Però è interessante che sia un banchiere centrale a chiedere ai politici di avere più «visione»: di solito, chi svolge quel ruolo esorta a tenere i piedi per terra. Non servono progetti magniloquenti, che a orecchie tedesche suonerebbero «pagherete voi i debiti degli altri»; occorre però indicare una direzione di movimento, verso una unione più stretta, e una politica più trasparente.

E’ spesso la difesa a oltranza di nuclei di potere politico-economico nazionale a rendere i 17 Stati dell’euro più deboli di fronte ai mercati di quanto i dati economici giustificherebbero. Ad esempio, un intervento di fondi europei a sostegno delle banche spagnole potrebbe risultare molto utile; Madrid non lo chiede forse per proteggere consorterie interne, Berlino lo rifiuta per sfiducia nelle altrui capacità di governo.

Anche Angela Merkel ora afferma che il solo rigore di bilancio non basta. L’Italia non può sottrarvisi. Deve casomai evitare un corto circuito letale: il malcontento contro l’austerità potrebbe essere sfruttato dai centri di potere per non applicare l’austerità a sé stessi. Un esempio lampante è quelli dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso i fornitori: le imprese giustamente li vogliono saldati, ma una parte corrisponde a denaro che non si doveva spendere, sorge da una diffusa disobbedienza ai tagli.

Nei primi mesi dell’anno non è calata la spesa pubblica, perché burocrati ed amministratori locali tentano di sfuggire ai vincoli. Nuovi scandali in imprese a controllo statale ripropongono l’opportunità di privatizzazioni. Pulizia della politica e revisione della spesa pubblica (o spending review che dir si voglia) non possono procedere l’una senza l’altra: sono le due facce della riforma strutturale oggi di gran lunga più importante.

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