da: il Venerdì di la Repubblica
Jack White canta da solo e, 11
anni dopo, torna a stupire
di Luca Valtorta
Alcuni ricordano ancora lo stupore provato ascoltando il disco che
consacrò White Stripes, White Blood Cells. Era il 2001 e quel
suono cupo, acido e classico insieme, dava nuova vita a una formula già
conosciuta come quella del punk blues. L’immaginario che avevano creato Jack e
Meg White era affascinante: tre colori, rosso, bianco e nero, due strumenti,
chitarra e batteria, e pezzi così scarni e potenti da sembrar suonati da una
legione di musicisti.
Da allora, Jack ha aggiunto ogni giorno un tassello alla sua storia:
lo spettro musicale si amplia, aumentano le collaborazioni e gli strumenti, i
gruppi si moltiplicano (Raconteurs, Dead Weather) e i White Stripes finiscono. Ora c’è solo lui e il suo primo lavoro da
solista, Blunderbuss, che suona come la summa di tutto quello che c’è
stato prima. Nell’iniziale Missing Pieces un organo
psichedelico si fa spazio fino a diventare protagonista, mentre è un tuffo del
passato sentire Sixteen Saltines: pare di essere tornati all’essenzialità
violenta dei primi White Stripes, con
i ritmi quadrati e il testo che racconta di adolescenti. Come negli esordi qui
l’amore trionfa: ma non è più l’amore «romantico». Love Interruption, il
primo singolo acustico, con la bella voce soul di Ruby Amnfu, parla della
necessità di non farsi dominare dai sentimenti. Ma quando attaccano la marziale
Freedom at 21 o Weep Themselves to Sleep e senti Jack snocciolare le parole con
lo stesso flow di Eminem, non puoi credere alle tue orecchie. Ormai non c’è
dubbio: Jack White è un genio. Su XL, l’unica intervista italiana.
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