Calabria, figlie del disonore
Lea, Cetta, Giusy: donne che hanno tradito la
'ndrangheta.
Erano tutte donne
d’onore. Quell’onore che le ha volute mogli bambine, madri adolescenti, sorelle
fedeli e figlie devote. Ma mai semplicemente donne. Erano la declinazione al
femminile dell’angelo del focolare che nella famiglia - quella dell’anagrafe e
quella più allargata della linea di sangue - aveva la propria ragione di vita.
Ma quando Lea,
Cetta, Giusy hanno scelto di pentirsi e diventare collaboratrici di giustizia,
proprio quella famiglia si è trasformata nell'incubo peggiore. E per due di
loro è stata addirittura fatale.
PENTITE ECCEZIONALI. Proprio per
far conoscere le storie di queste donne, il direttore del Quotidiano della
Calabria, Matteo Cosenza, ha lanciato la campagna 'Tre foto e una mimosa', in
vista dell'8 marzo. Centinaia di associazioni calabresi hanno aderito e stanno
organizzando convegni e iniziative per portare alla luce il loro coraggio.
Perché se già il pentitismo è un fenomeno raro, il fatto che le protagoniste
siano donne lo rende davvero eccezionale.
Le donne della
'ndrangheta, infatti, «condividono appieno il disegno mafioso dei compagni e
partecipano alla realizzazione del programma criminale», ha affermato Natina
Pratticò, il giudice che tra i 51 provvedimenti restrittivi emessi per la
strage del 15 agosto 2007 a Duisburg, in Germania, ha firmato otto
misure cautelari per altrettante donne accusate di associazione mafiosa.
Ma qualcuna di
loro ha deciso di «tradire». Era il 2002 quando Lea Garofalo scelse di raccontare
ai magistrati tutto quello che sapeva sulla faida che da anni vedeva
contrapposta la sua famiglia, reggente di Petilia Policastro, piccolo centro in
provincia di Crotone, a quella dei Mirabelli.
LEA, RAPITA E UCCISA. Sette anni dopo, ormai fuori dal programma di protezione, è stata braccata, seguita e rapita nelle vie di Milano, portata in un campo dell’infinita periferia meneghina, uccisa presumibilmente dal suo stesso ex compagno, Carlo Cosco, e poi sciolta in 50 litri di acido.
Il processo che vede Cosco alla sbarra le riserva anche un ultimo schiaffo: per il pubblico ministero Marcello Tatangelo del tribunale di Milano non ci sarebbe aggravante mafiosa nel delitto, si tratterebbe solo di un omicidio passionale.
LEA, RAPITA E UCCISA. Sette anni dopo, ormai fuori dal programma di protezione, è stata braccata, seguita e rapita nelle vie di Milano, portata in un campo dell’infinita periferia meneghina, uccisa presumibilmente dal suo stesso ex compagno, Carlo Cosco, e poi sciolta in 50 litri di acido.
Il processo che vede Cosco alla sbarra le riserva anche un ultimo schiaffo: per il pubblico ministero Marcello Tatangelo del tribunale di Milano non ci sarebbe aggravante mafiosa nel delitto, si tratterebbe solo di un omicidio passionale.
Cetta e il suicidio con l'acido in nome della libertà
Cetta, invece, ha
scelto di morire. Si è suicidata nell’agosto scorso con
un cocktail di acido muriatico per scappare da un mondo in cui sarebbe stata
sempre la figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e la moglie di
Salvatore Figliuzzi, in carcere per associazione a delinquere di stampo
mafioso.
Era moglie, figlia, sorella dei cosiddetti “uomini di rispetto”, con tutto quello che ciò implica, ancora adesso, a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria.
VESSATA E PICCHIATA. Vessata, segregata in casa o seguita a vista, pestata a sangue perché sospettata di avere un amante, Maria Concetta un giorno ha deciso parlare, dando un’identità a luoghi e persone fino ad allora nell’ombra, svelando affari e coperture.
Poi è stata inserita nel programma di protezione testimoni. Prima di lasciare i figli alla madre, l'ha supplicata: «A loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io. Mi sono sposata a 13 anni sperando di avere un po’ di libertà, invece mi sono rovinata la vita perché lui non mi amava, né io l’amo, e tu lo sai», scrisse Cetta nella lettera con cui tentò di spiegare alla madre le ragioni della sua collaborazione.
IL RICATTO FATALE. Ma quegli stessi figli sono stati usati dalla cosca come cavalli di Troia per costringerla a tornare a Rosarno e ritrattare tutte le dichiarazioni.
Le è stato imposto di scrivere una lettera e registrare un nastro, in cui affermava di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. Così, qualche giorno dopo, la donna è scesa nello scantinato, si è chiusa la porta alle spalle e si è suicidata. In nome di una libertà che Cetta ha cercato a tutti costi, decisa a dare una vita diversa a sé e ai propri figli, ma condannata a pagare - ha scritto il giudice - «il doloroso prezzo che le ha inflitto il destino, che è stato quello di farla nascere in una famiglia che ha praticato il culto dell’Onore, elevato a principio cardine dell’esistenza, in ossequio al quale nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita».
Era moglie, figlia, sorella dei cosiddetti “uomini di rispetto”, con tutto quello che ciò implica, ancora adesso, a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria.
VESSATA E PICCHIATA. Vessata, segregata in casa o seguita a vista, pestata a sangue perché sospettata di avere un amante, Maria Concetta un giorno ha deciso parlare, dando un’identità a luoghi e persone fino ad allora nell’ombra, svelando affari e coperture.
Poi è stata inserita nel programma di protezione testimoni. Prima di lasciare i figli alla madre, l'ha supplicata: «A loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io. Mi sono sposata a 13 anni sperando di avere un po’ di libertà, invece mi sono rovinata la vita perché lui non mi amava, né io l’amo, e tu lo sai», scrisse Cetta nella lettera con cui tentò di spiegare alla madre le ragioni della sua collaborazione.
IL RICATTO FATALE. Ma quegli stessi figli sono stati usati dalla cosca come cavalli di Troia per costringerla a tornare a Rosarno e ritrattare tutte le dichiarazioni.
Le è stato imposto di scrivere una lettera e registrare un nastro, in cui affermava di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. Così, qualche giorno dopo, la donna è scesa nello scantinato, si è chiusa la porta alle spalle e si è suicidata. In nome di una libertà che Cetta ha cercato a tutti costi, decisa a dare una vita diversa a sé e ai propri figli, ma condannata a pagare - ha scritto il giudice - «il doloroso prezzo che le ha inflitto il destino, che è stato quello di farla nascere in una famiglia che ha praticato il culto dell’Onore, elevato a principio cardine dell’esistenza, in ossequio al quale nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita».
Giuseppina, il coraggio di ribellari al culto
dell'onore
E un destino
simile poteva toccare anche a Giuseppina Pesce, cugina di Cetta, che prima di
lei aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Ma la donna, che con le sue
rivelazioni ha fatto condannare buona parte della sua famiglia, ha resistito
alle pressioni. Ora è sotto protezione in località sconosciuta e interviene in
videoconferenza alle udienze che vedono alla sbarra i suoi parenti.
Cresciuta in una delle cosche della ‘ndrangheta che conta, Giuseppina - poco più di 30 anni e tre figli da crescere - dopo l’arresto, avvenuto durante il 14 ottobre 2010 ha iniziato a collaborare con i magistrati.
Al pubblico ministero Alessandra Cerreti, la donna ha raccontato il giro di soldi e affari legato alla famiglia, i ruoli assunti dai vari componenti, la rete di prestanome che li proteggeva. Per i Pesce, la cosca che ha imposto il suo dominio a Rosarno per decenni, è stato un disastro.
All’epoca, Giuseppina alloggiava in una stanza d’albergo di una località protetta e i suoi tre figli - una ragazza adolescente e i due più piccoli - erano con lei.
DALLA PARTE DELLA GIUSTIZIA. Ma è stato ancora una volta tramite loro che la famiglia è riuscita a imporre la sua forza. E Giuseppina ha fatto marcia indietro: è tornata a Rosarno e, su pressione dei parenti e dell’avvocato Giuseppe Madia, ha scritto una lettera in cui rinnegava tutto. «Sono tornata indietro perché pensavo che i miei figli avrebbero smesso di soffrire. Sapevo che per me non ci sarebbe stato un futuro, che avrei fatto una brutta fine, ma speravo per loro», ha raccontato la donna ai magistrati nell’interrogatorio dell’8 settembre scorso.
«Ma poi ho capito che avrebbero comunque pagato per la mia scelta e così ho deciso di tornare dalla parte della giustizia», ha aggiunto.
I figli dell’'infame' - perché tale è considerata la Pesce per la sua famiglia - sono stati sottoposti a diverse pressioni familiari. «Nel corso dei colloqui in carcere con i miei figli, ho appreso che i parenti di mio marito li maltrattavano. Hanno negato loro il cibo con la scusa di non avere più soldi a causa del pagamento del mio difensore. E il piccolo Gaetano mi ha raccontato che è stato picchiato dal nonno con una cintura».
IL SACRILEGIO DELLA CONFESSIONE. Violenza fisica e psicologica, pressioni, prepotenze e logiche alle quali, ha compreso Giuseppina, ci si può e ci si deve ribellare. Ed è con questa consapevolezza che, fra un mese, affronterà la vista dei suoi familiari chiusi nelle gabbie dell’aula bunker del tribunale di Palmi e testimonierà contro di loro.
Un atteggiamento che ha il sapore di un sacrilegio per un mondo che, nel 2012, vuole ancora la donna schiava e vestale di un culto, spacciato per 'onore', ma che per Lea, Cetta, Giusy e le tante altre donne di 'ndrangheta ha significato solo sottomissione, dolore e morte. Un culto a cui anche in Calabria, nel cuore dell’impero delle 'ndrine, si comincia a dire di no.
Cresciuta in una delle cosche della ‘ndrangheta che conta, Giuseppina - poco più di 30 anni e tre figli da crescere - dopo l’arresto, avvenuto durante il 14 ottobre 2010 ha iniziato a collaborare con i magistrati.
Al pubblico ministero Alessandra Cerreti, la donna ha raccontato il giro di soldi e affari legato alla famiglia, i ruoli assunti dai vari componenti, la rete di prestanome che li proteggeva. Per i Pesce, la cosca che ha imposto il suo dominio a Rosarno per decenni, è stato un disastro.
All’epoca, Giuseppina alloggiava in una stanza d’albergo di una località protetta e i suoi tre figli - una ragazza adolescente e i due più piccoli - erano con lei.
DALLA PARTE DELLA GIUSTIZIA. Ma è stato ancora una volta tramite loro che la famiglia è riuscita a imporre la sua forza. E Giuseppina ha fatto marcia indietro: è tornata a Rosarno e, su pressione dei parenti e dell’avvocato Giuseppe Madia, ha scritto una lettera in cui rinnegava tutto. «Sono tornata indietro perché pensavo che i miei figli avrebbero smesso di soffrire. Sapevo che per me non ci sarebbe stato un futuro, che avrei fatto una brutta fine, ma speravo per loro», ha raccontato la donna ai magistrati nell’interrogatorio dell’8 settembre scorso.
«Ma poi ho capito che avrebbero comunque pagato per la mia scelta e così ho deciso di tornare dalla parte della giustizia», ha aggiunto.
I figli dell’'infame' - perché tale è considerata la Pesce per la sua famiglia - sono stati sottoposti a diverse pressioni familiari. «Nel corso dei colloqui in carcere con i miei figli, ho appreso che i parenti di mio marito li maltrattavano. Hanno negato loro il cibo con la scusa di non avere più soldi a causa del pagamento del mio difensore. E il piccolo Gaetano mi ha raccontato che è stato picchiato dal nonno con una cintura».
IL SACRILEGIO DELLA CONFESSIONE. Violenza fisica e psicologica, pressioni, prepotenze e logiche alle quali, ha compreso Giuseppina, ci si può e ci si deve ribellare. Ed è con questa consapevolezza che, fra un mese, affronterà la vista dei suoi familiari chiusi nelle gabbie dell’aula bunker del tribunale di Palmi e testimonierà contro di loro.
Un atteggiamento che ha il sapore di un sacrilegio per un mondo che, nel 2012, vuole ancora la donna schiava e vestale di un culto, spacciato per 'onore', ma che per Lea, Cetta, Giusy e le tante altre donne di 'ndrangheta ha significato solo sottomissione, dolore e morte. Un culto a cui anche in Calabria, nel cuore dell’impero delle 'ndrine, si comincia a dire di no.
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