da: la Repubblica
La riforma del Gattopardo
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi
La riforma del
lavoro che si va delineando ha due
pregi e molti difetti. Il primo
pregio è nel metodo. Sancisce,
almeno sulla carta, la fine del diritto
di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il
lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale
in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà
comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all’esecutivo di
intervenire senza il consenso delle parti sociali. Sembra, infatti, che si
procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per
legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il
processo di attuazione delle leggi delega.
Ad ogni modo la
novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su
materie di portata così generale. Il secondo
pregio è nell’ampiezza della riforma.
I problemi da affrontare erano quattro 1) l’entrata
nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino
degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e
lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato.
La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi. Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo.
La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi. Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l’impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell’articolo 18 e l’opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo.
Vediamo perché,
iniziando dalla flessibilità in uscita, dall’articolo 18.
La riforma dell’articolo 18 non riduce
l’incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del
licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero
e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra
licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte
che sin qui non c’era: quello della distinzione
fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino
ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a
chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e
licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa
cruciale. Col licenziamento disciplinare,
infatti, il lavoratore è maggiormente
compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato.
La distinzione fra licenziamento economico
e disciplinare è nella pratica molto
labile. Chi è davvero in grado di
stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento
disciplinare) o perché inserito in un’unità in crisi in cui non può “dare di
più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre
vere, altrimenti l’azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per
riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la
riforma si trasferisce un potere enorme
ai giudici che, d’ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se
il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo,
se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e
non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso
in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione
o solo il risarcimento del lavoratore.
Si aumenta così l’incertezza del procedimento e molto
probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma
non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Sugli ammortizzatori sociali non c’è allargamento nella platea dei
potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e
artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi
dagli ammortizzatori. Non c’è neanche il promesso riordino degli strumenti
esistenti. Non verrà abolita la
cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa
integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di
solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti
e l’indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell’edilizia, che servono
oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad
aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro.
La recessione non è comunque il momento
migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare
nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben
oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla
fiscalità generale. La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori
precari e non. I lavori precari
costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a
tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo
fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito
netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli
ammortizzatori, l’aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori
come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra
contributi e prestazioni sarà tutt’altro che evidente. In assenza di un salario
minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati,
il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al
dipendente sotto forma di salari più bassi.
I lavoratori parasubordinati stanno già
ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del
loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese. Il
meccanismo di entrata principale sarà quello dell’apprendistato. È un contratto
che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere
interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo.
Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50
per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si
aspettano un alleggerimento fiscale per l’apprendistato. Quello di aver aperto
il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo,
poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E
avrà effetti negativi sul deficit di bilancio.
In conclusione,
gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori
duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova
modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente
la domanda di lavoro.
La vera sconfitta e il vero paradosso
sarebbe proprio quello, che la grande
riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il
numero dei lavoratori occupati.
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